Shirley

di Josephine Decker

Nel biodrama dedicato a Shirley Jackson, Decker inverte i termini della biografia, sfruttando un episodio fittizio per dar vita alla scrittrice e indagare il processo creativo.

Shirley - recensione film

In una cronaca pubblicata sul giornale francese Libération qualche anno fa, il filosofo Paul B. Preciado distingue due modi di concepire una biografia: il primo consiste nell’utilizzare la scrittura come strumento di ricostruzione meticolosa del tempo e dell’azione, mentre il secondo «partendo dall’impossibilità della biografia, intende la scrittura come una tecnologia della soggettività, come una pratica performativa di produzione di vita». L’ultimo lungometraggio di Josephine Decker, il biodrama Shirley, dedicato alla scrittrice Shirley Jackson, rappresenta un esempio paradigmatico di questo secondo processo biografico applicato alla settima arte.

Negli ultimi anni, il mondo del cinema ha espresso un interesse crescente nei confronti di Jackson e dei suoi scritti: dalla serie prodotta da Netflix The Haunting of Hill House al lungometraggio Mistero al castello Blackwood di Stacie Passon, molte sono le opere dell’autrice recentemente adattate per il grande e il piccolo schermo. Nel concepire Shirley, primo film destinato al grande pubblico, Decker opta però per il racconto biografico.
Basato sull’omonimo romanzo di Susan Scarf, questo biopic atipico si serve di un episodio fittizio per invitarci dentro le mura di casa Jackson nel periodo che precede la pubblicazione del romanzo The Hangsaman, a sua volta ispirato, a detta del primo editore, a un fatto di cronaca realmente accaduto e mai risolto: la scomparsa della giovane studentessa Paula Jean Welden.

Shirley Jackson ci viene raccontata come una donna controversa: imprevedibile, spesso sgradevole, e agorafobica. Al di fuori della sua abitazione c’è il mondo accademico americano degli inizi degli anni ’50, di cui la scrittrice non si sente parte, e in cui nuota invece abilmente il marito Stanley Hyman. È un universo intellettuale e borghese, che si regge su una serie di ipocrisie, di solide gerarchie e di rigidi codici sociali. Il film riconosce in modo esplicito il legame di parentela con Chi ha paura di Virginia Woolf, sia per l’ambientazione nel milieu accademico, sia per la relazione tossica della coppia protagonista (che vampirizza due giovani sposi nutrendosi delle loro illusioni), sia per il costante interrogativo sul limite tra finzione e realtà. Shirley — che come progetto vanta una consistente componente femminile, dalla regia allo scriptaggiunge anche una denuncia non troppo velata dell’oppressione patriarcale su cui si regge il sogno americano. Al contempo, anche la solidarietà tra le due donne protagoniste si rivela impossibile: per portare a termine il romanzo, Shirley ha bisogno di sovrapporre la figura di Rose a quella di Paula, conducendo la prima nella stessa zona d’ombra in cui si sarebbe potuta trovare la seconda prima di sparire senza lasciar traccia.

La macchina da presa non si limita a offrirci una riproduzione più o meno fedele di un accadimento biografico, ma si prende la libertà dell’invenzione narrativa per dare vita alla scrittrice: il graphein diventa così produttore di bios. Il punto di partenza non è più il vero storico, ma l’artificio narrativo che, lungi dal tradire i protagonisti della vicenda, attribuisce loro ancora più spessore. Se è vero che alcune condizioni biografiche — il fatto che Jackson avesse tre figli all’epoca della vicenda narrata, per citarne una — non vengono rispettate, è altrettanto vero che questo modus operandi sembra essere l’unico in grado di rendere giustizia a una scrittrice che Joyce Carol Oates definisce “troppo estrosamente originale” per essere imitata.

Interrogando il processo creativo, come già aveva fatto nella sua precedente pellicola Madeline’s Madeline, Decker mette a punto un complesso gioco di specchi: così come Jackson si serve del personaggio fittizio di Rose per sormontare il blocco dello scrittore e portare a termine il suo romanzo, la registra texana sfrutta l’espediente narrativo per esplorare la relazione tra Jackson e Hyman, nonché il rapporto tra la scrittrice (e più in generale, la figura dell’artista) e le sue creazioni.
Con Shirley, Decker ci immerge nella metanarrazione, mostrandoci non solo l’impossibilità di separare l’artista dalla propria opera, ma anche come la costante dialettica tra finzione narrativa e (im)possibilità biografica sia a sua volta una fonte inesauribile di vita e fiction. Il risultato è un’immagine frattale in cui la danza di corteggiamento tra illusione e realtà si ripropone su diversa scala, producendo un effetto perturbante, ipnotico e vertiginoso.

Autore: Nicolò Comencini
Pubblicato il 15/12/2020
USA 2020
Durata: 107 minuti

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