Avengers: Endgame
Operazione "larger than life" dalla portata epica enorme, un punto di svolta nella storia del cinema e dell'intrattenimento che porta a compimento 11 anni di narrazione espansa confermando le basi del Marvel Cinematic Universe.
Quando nel 2008 uscì nelle sale Iron Man nessuno, neanche Kevin Faige, avrebbe immaginato la portata di quel percorso che oggi è arrivato ad Avengers: Endgame, una tappa non definitiva come spesso si legge in giro, ma sicuramente dedicata a completare un primo arco, dando compiutezza a qualcosa che – detto molto semplicemente senza paura di essere iperbolici – non si era mai visto nella storia del cinema.
Non è solo la consapevolezza che operazioni di queste dimensioni, per quanto possano essere figlie di una progettualità maniacale, non sono mai totalmente calcolate perché figlie anche di variabili che si presentano nel corso del tempo e che vanno sfruttate a proprio vantaggio per non esserne sopraffatti. Accanto a questa certezza c'è anche un dato abbastanza incontrovertibile, ovvero che quello che oggi riconosciamo come un universo cinematografico che si regge su una capacità di generare denaro senza precedenti undici anni fa non esisteva, per cui ogni investimento economico rappresentava un rischio e non sempre i film sono stati accolti con il massimo dei favori, soprattutto perché gli esiti qualitativi erano a volte poco convincenti – basti pensare al caso di Hulk.
Va anche detto che gli universi narrativi al cinema non sono mai stati sviluppati in queste proporzioni e con questa progettualità, e benché nel mondo dei fumetti, dei videogiochi e delle serie televisive fossero qualcosa di assolutamente normale, al cinema rappresentavano una sorta di novità, sia per gli addetti ai lavori, sia per la critica, sia per gli spettatori, i quali hanno imparato a restare seduti sulle poltrone fino alla fine di tutti i titoli di coda per guardare la rituale scena post-credits, ovvero l'elemento narrativo che simboleggiava il legame tra un film e l'altro.
Avengers: Endgame arriva in un contesto decisamente diverso, anzi potremmo dire in un mondo nuovo, tanto è il peso del Marvel Cinematic Universe non solo sul cinema ma in generale sulla cultura pop e sull'intrattenimento contemporanei. Il film diretto dai fratelli Russo non poteva capitare in un momento migliore, perché il 2018 oltre a essere stato l'anno dell'attesissimo Infinity War (primo capitolo di questo doppio epilogo) è stato soprattutto l'anno di Black Panther. Il film diretto da Ryan Coogler è stato un'opera profondamente innovativa per quanto riguarda la rappresentazione delle persone di colore, un fenomeno culturale senza precedenti, capace di resistere in sala per tantissime settimane ed essere l'unico film del 2018 a guadagnare oltre un miliardo di dollari nel mercato statunitense, a dimostrazione dell'impatto devastante che ha avuto sul pubblico, incentivato anche da una ricezione critica eccezionale.
Non tutto è roseo sul cammino di Endgame, perché dopo la storica sfilza di nomination per Black Panther agli Oscar 2019 e la mancata vittoria del premio principale (attribuito in maniera forse un po’ pavida a Green Book, un film senza dubbio più convenzionale) è già ripartito il toto-oscar, nella speranza che possa essere Endgame il destinatario di questo tanto desiderato riconoscimento. Le aspettativa che hanno anticipato il film sono dunque enormi e di vario genere, e in queste condizioni spesso rappresentano l'alba del fallimento. È alla luce di queste premesse che vanno interpretate alcune scelte cruciali di Endgame, perché non bisogna mai dimenticare che non si tratta di un film qualsiasi, ma di un'opera dalle dimensione extra-large che vive di un rapporto simbiotico con il proprio pubblico. L'incredibile macchina commerciale è infatti l'altra faccia di un rapporto intensamente dialogico tra produttori e consumatori (o tra autori e pubblico, che dir si voglia) in cui la gestione del delicato equilibrio tra sorprese e conferme è affidata a elementi di tipo sia narrativo che formale.
Solo se analizzate sotto questa lente si spiegano alcune scelte a prima vista più conservative rispetto a quelle operate dal capitolo precedente della saga degli Avengers, perché è vero che il finale di Infinity War rappresentava una sorpresa clamorosa – tanto da spingere tutti a parlare di discontinuità forte rispetto alle logiche narrative del comic movie – ma è altrettanto vero che le esigenze di questo capitolo sono differenti da quello precedente. Se infatti in quel caso era fondamentale la sorpresa, in questo aveva un ruolo essenziale la conferma (per ritornare alla dialettica appena citata) e allora vengono accolti come la cosa più naturale del mondo gli omaggi ai film precedenti, a tutte quelle storie che hanno portato a questo temporaneo punto di bilanci. Non bisogna però fare l'errore di pensare che questo genere di sviluppo narrativo – che definire atteso è più appropriato rispetto a prevedibile – sia più semplice o meno coraggioso: riuscire a dare al pubblico quello che si aspetta, realizzare un finale epico come promesso e in grado di riallacciare tutti i fili narrativi omaggiando i personaggi che hanno popolato l'universo fino a questo momento, è una delle cose più difficili immaginabili al cinema (e non solo, basti pensare alle critiche che sta ricevendo la stagione finale di Game of Thrones), anche perché basta sbagliare un'inquadratura o una battuta a innescare le balestre di critici di ogni genere.
Il merito principale dei fratelli Russo e degli sceneggiatori di Endgame sta quindi nel aver saputo gestire un film di oltre tre ore utilizzando i personaggi storici dell'universo come vettori emotivi principali, soprattutto a partire dalla consapevolezza collettiva che per alcuni di loro si trattava della chiusura di un ciclo, se non addirittura dell'ultima apparizione. Ovviamente le due direttrici principali sono quelle definite da Iron Man e Captain America, non solo perché gli interpreti sono i primi per cachet tra le star ma anche perché sono i personaggi che da sempre hanno trascinato il racconto complessivo, tanto da finire uno contro l'altro in Civil War. Le loro parabole sono tra le cose più interessanti di Endgame, perché come al solito sono caratterizzate da un'ironia citazionista comprensibile da spettatori di tutte le età, ma soprattutto questa volta sono contraddistinte da una gravitas inedita che li ammanta di eroismo vero. A stemperare un registro che rischierebbe di essere un può fuori tono rispetto alle abitudini della saga c'è la scelta di dare centralità alla figura di Ant-Man, il quale grazie anche alle qualità comiche di Paul Rudd si conferma come anello di congiunzione tra il gruppo di supereroi e gli spettatori.
Dal punto di vista dell'innovazione, in un film così grande (sotto tutti i punti di vista), con così tante esigenze da soddisfare ed equilibri da mantenere, non sono tanto ampi i margini d'azione. Ciononostante Endgame riesce comunque a mostrare qualcosa di inedito rispetto al passato, utilizzando due personaggi del gruppo storico in un modo decisamente nuovo, anche a costo di esporsi alle critiche. E infatti la maggior parte delle perplessità sono arrivate proprio a proposito della gestione di Hulk e Thor, sui quali in questo film è stato fatto un lavoro assai diverso rispetto al passato. Hulk non è più quell'eroe metà scienziato e metà creatura indomabile, non è più un uomo dilaniato dal conflitto tra ragione e istinto, educazione e violenza, ma un individuo che ha imparato a far convivere le sue due identità, valorizzandole entrambe senza per forza metterle in conflitto, elaborando la rabbia e venendone fuori come una persona diversa e più matura. Per quanto riguarda Thor, invece, i Russo hanno optato per mettere in scena la crisi di un Dio, un personaggio devastato dal fallimento che ha chiuso Infinity War e che non ha più alcuno stimolo perché totalmente traumatizzato, in balia dell'alcol e privo di ogni spinta di tipo eroico. Il suo percorso è uno dei più originali e immaginarlo nei Guardiani della galassia Vol. 3 fa sperare finalmente in un futuro roseo per il personaggio.
Avengers: Endgame è qualcosa di mai visto al cinema, il punto culminante di un'operazione durata undici anni, un'opera larger than life dalla portata epica enorme, capace di raccogliere nella stessa cornice emozioni figlie di oltre venti film, che esplodono nel momento in cui tutti i personaggi entrano in scena per la battaglia finale: questo non è solo il momento in cui spettatori di tutte le età sono legittimati (dall'opera stessa) a non trattenere gli applausi, ma è anche la celebrazione di un'idea di cinema che in un decennio ha dato vita a un immaginario indimenticabile per almeno una generazione di spettatori (quella diventata adulta con questi film), tale da stracciare record su record al botteghino, avere un impatto incalcolabile su intere comunità e arrivare fino ai premi Oscar.