Jupiter - Il destino dell'universo

Dopo lo splendore di Cloud Atlas i fratelli Wachowski tornano con un film estremo oltre ogni logica da blockbuster

In 127 minuti e 176 milioni di dollari Jupiter – Il destino dell’universo raccoglie dentro di sé decine di film diversi.

Come una giostra apparentemente priva di controllore, storie e personaggi entrano ed escono dallo schermo, vengono introdotti, si interrompono e spariscono, per poi ritornare all’ultimo nel salvataggio della damigella in pericolo. Quella creata dai fratelli Andy e Lana Wachowski è una mitologia espansa e stratificata di cui godiamo soltanto a corrente alternata, la Jupiter interpretata da Mila Kunis è come un fascio di luce nell’oscurità, che illumina col suo cammino vari aspetti di un universo estremamente variegato ma di cui non conosciamo che ritagli. E al pari di una struttura narrativa anarchica e costantemente in movimento, dentro Jupiter Ascending (il migliore e più inerente titolo originale) si accumulano e alternano citazioni e rimandi dichiarati ad alcuni dei capisaldi della fantascienza occidentale, Star Trek e assieme Star Wars, Blade Runner e Brazil, fino a Dune, capostipite letterario di quella fantascienza colta ma al confine col fantasy che ha il suo apice di gloria con gli anni Settanta-Ottanta. Jupiter Ascending del resto sembra fuoriuscire direttamente da quelle decadi, se non fosse ovviamente per un impianto visivo figlio dell’era digitale. Non a caso, anche se circondati da pixel in esplosione, diversi personaggi alieni mantengono la loro natura finta e analogica, grazie a trucchi e protesi tanto adorabili quanto anacronistici.

Ma del resto, tutto Jupiter Ascending sembra porsi oltre il confine spazio-temporale del blockbuster contemporaneo, destrutturato e disinnescato da un procedimento consapevolmente anarchico, tanto postmoderno quanto postclassico. Il duo dei Wachowski infatti ha il merito di riuscire ad alternare quel procedimento di frammentazione e collage tipico della cultura postmoderna ad una struttura portante spudoratamente classica, nella quale i costanti salvataggi della Bestia sulla Bella sono soltanto l’elemento più evidente di un approccio cinefilo dall’intoccabile fiducia nel potere mitopoietico del cinema e della sua narrazione fantastica. Una fede che si concretizza nella riproposizione di una fantascienza costantemente umanistica, fedele sempre a sé stessa nel porre anzitutto la sensibilità e l’unicità dell’uomo al centro del proprio universo cinematografico.

Barocco e scalpitante, Jupiter Ascending è uno spettacolo di pura visione cinematografica, all’interno della quale i Wachowski reiterano i loro temi portanti senza però porvi troppo l’accento. Il loro resta comunque un cinema profondamente politico, all’interno del quale una casta di controllo si reitera nella sua dominazione dei più con logiche di sopraffazione violente e ignobili, tuttavia questa volta il focus dell’attenzione pare slittare più in là, puntare direttamente alla costruzione iconica e visuale piuttosto che narrativa di un universo mitologico altro. Di tale approccio, nel bene e nel male, ne risente la coesione tra le scene (praticamente assente), la trama portante (caotica nella sua semplicità) e la scrittura di tutti i personaggi, dalla famiglia degli Abrasax (dal nome simile al grande discorso di Santana, ma voluttuosi e spietati come viziati dèi greci) all’eroe interpretato da Channing Tatum, ibrido animale che caccia seguendo gli odori e si tappa le ferite con un assorbente. E’ come se i Wachowski fossero oltre la resa narrativa, oltre le regole di sceneggiatura e la canonica prassi filmica, collocandosi consapevolmente alla guida di un sicuro suicidio economico, ma quanto fascino, quanta energia.

In una Hollywood sempre più popolata di remake e reboot quello dei creatori di Matrix è un cinema libero e gloriosamente anarchico al quale non riusciamo a non voler bene. Certo, Jupiter Ascending non ha sicuramente la grazia e la potenza anzitutto affabulatrice di Cloud Atlas. Sembra poi un film in cui la maggior parte delle scene girate siano rimaste sul pavimento della sala di montaggio, sacrificate sull’altare del minutaggio ma altrimenti pronte a trasformare il film in un’epopea lunga forse il doppio. Ma nonostante tutto questo l’immaginazione sfrenata, l’incrollabile fede cinefila, il coraggio vicino all’incoscienza rendono quello dei Wachowski il cinema più libero della macchina fantastica alimentata da Hollywood, un’atto d’amore nei confronti della stessa creazione di storie con le immagini.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 09/02/2015

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