Pet Semetary
Debutto nel mainstream per i registi di "Starry Eyes". Ma il "Pet Semetary" 2019, tra look televisivo e paura di calcare la mano, non ha ragioni per sostituirsi all'originale.
In Pet Semetary c'è probabilmente la storia più rappresentativa di tutto il canone kinghiano. Ripresa da chiunque, oggetto di parodie, canzoni, lodata da Stephen King in persona, oggetto di un adattamento tra i migliori dello sfortunato catalogo cinematografico dell'autore (Cimitero vivente, Mary Lambert, 1989), l'immagine del cimitero indiano capace di riportare in vita le bestie sepolte è ormai di pubblico dominio. Gli autori Kevin Kolsh e Dennis Widmyer, a lavoro su commissione dopo l'apprezzato indie horror Starry Eyes, si approcciano a un simile tesoro nella maniera più prudente: quella della trasposizione analogica, step by step. Con un'unica, colossale variazione interna, paradossalmente capace di sabotare quanto di buono messo insieme.
La storia di Pet Semetary mette da quarant'anni la razionale e traumatizzata famiglia Creed alle prese con il luogo del titolo (typo sulla C voluto). Papà Louis (Jason Clarke), medico illuminista, e mamma Rachel (Amy Seimetz), perseguitata da un ricordo d'infanzia allucinante, si trasferiscono a Ludlow, Maine, insieme ai piccoli Eilie e Gage, di dieci e due anni. Ubicato in una foresta poco lontano la loro nuova abitazione, sonnecchia il cupo sacrario del titolo, dedicato agli animaletti defunti della cittadina. Come scopriranno presto tramite il vecchio custode-Caronte Jud (John Lithgow), il luogo è in realtà la porta per un territorio arcano, maledetto dalle tribù Mikmaq e capace di restituire la vita alle carcasse che vi vengono sepolte. Nonostante lo scetticismo del patriarca, alla morte del gattone di famiglia Church i Creed cadranno nella tentazione di mettere alla prova i Grandi Antichi del bosco. Sarà il punto di non ritorno: quando la morte verrà a prendersi un membro della famiglia, il potere del cimitero porterà Louis ad un gesto folle.
L'idea più forte del romanzo alla base di Pet Semetary, sta nella sua versione del mito del "ritornante". Nell'opera kinghiana, un apologo cupissimo e disperato sul lutto e la perdita, a subire suo malgrado il potere del terreno "inquinato" (tema fondamentale in moltissime opere del maestro di Portland), è il piccolo Gage Creed: il parto di questa aberrazione, la figura del duenne zombie, è un coacervo di orrore edipico e di tabù infranti (il massimo dell'innocenza pervertito dal massimo dell'innaturale) e rappresenta l'intuizione più indimenticabile del materiale di partenza. Per motivi insondabili (che presumibilmente vanno dalla necessità di bilanciare protagonisti maschili e femminili, alla banale paura di mettere in scena la morte brutale di un infante), il copione di Jeff Buhler decide di cambiare l'identità del cadavere. A morire, e a tornare, è allora un personaggio molto più "ovvio", molto meno disturbante, e soprattutto molto più serenamente inserito in una tradizione horror battuta e ribattuta (che passa per Mario Bava, l'Esorcista e mille altri J-Horror). E così, l'unica idea originale di un adattamento letterale, è un'idea sbagliata. Che sabota quanto di radicale ci fosse nel materiale di partenza, e lo riporta sui binari del già visto.
Azzoppato da questo errore concettuale, il Pet Semetary 2019 fa comunque il possibile per concludere la sua corsa in posizione accettabile. Il risultato, a onor del vero, è tutt'altro che tragico: in un campionato come quello degli adattamenti kinghiani, un campionato che vede centinaia di partecipanti e quasi nessun vincitore, il film di Kolsh e Widmyer evita quantomeno la retrocessione. Se, come detto, il climax del film soffre la codardia della produzione, è inevitabile che il meglio arrivi in fase di costruzione. Il lavoro competente sulla tensione e l'atmosfera della prima ora non è male: tra presagi infernali e ritmi compassati (il film si prende i suoi tempi), un cast di discreto livello (ancora ottimo il sempre dolente Clarke; simpatico Lithgow, di supporto il resto), e un immaginario di fondo a cui, se si è fan, è inevitabile ritrovarsi immediatamente affezionati, il film cammina. Gli ormai inevitabili easter eggs ispirati all'opera dello scrittore hanno poi il loro ruolo nella furba captatio benevolentiae dello spettatore, che di fronte alle citazioni di Derry e La torre nera finisce sempre per abbassare le difese. Alla fine, a venir fuori è più che altro il tono da fiaba triste: il film lascia fuori spiegazioni e divagazioni mostruose, e sembra voler raccontare soprattutto di un gruppo di persone incapaci di affrontare la perdita.
Per il resto, c'è molto poco di cui discutere. Visivamente il film si presenta come il più tipico dei prodotti horror mainstream di questi anni: molto dimesso, visivamente sciatto (troppo digitale inutile nelle scenografie), pretenziosamente "realistico" e avvolto da una fastidiosa patina Netflix che tradisce le vere ambizioni del progetto su commissione: bruciarsi il weekend di apertura e finire il prima possibile nelle playlist a tema di qualche piattaforma streaming. E se rispetto ad altri adattamenti recenti ne esce tutto sommato dignitosamente, è il confronto con la versione 1989 a mettere davvero ko Kolsh e Widmyer. Dagli effetti al look, da Zelda a Gage, non c'è confronto con il film di Mary Lambert che questo cimitero 2019 non riesca a perdere. Non un granché, come biglietto da visita.