Doctor Sleep
Non un sequel di "Shining" ma un film figlio: Flanagan rischia tutto e vola altissimo, allontanandosi da Kubrick (e da King) ma ritornando all’Overlook per chiudere i conti. Esattamente come per i fantasmi delle vite di tutti.
Shining (1980) non aveva bisogno di un Doctor Sleep (2019), così come Kubrick non ha certamente bisogno di un Mike Flanagan. Nonostante sia logico e prevedibile che la macchina del marketing debba per forza di cose muoversi nella direzione opposta, insistendo quindi sul rapporto narrativo consequenziale tra le due opere, Doctor Sleep non è il sequel di Shining, o quantomeno non lo è nel significato più comune che si attribuisce al termine. Piuttosto ne è figlio, con tutto l’universo di pensieri, sentimenti e parole che un’affermazione del genere porta con sé: e di padri e figli il film di Flanagan è colmo quasi fino a scoppiare, sotto molteplici punti di vista.
Forse era davvero necessario l’input di un altro padre (Spielberg e la sorprendente sequenza di Ready Player One) per sancire definitivamente il passaggio dello Shining di Kubrick da film a opera/mondo, vero e proprio luogo dell’immaginario da cui partire di nuovo per scrivere e filmare una realtà nuova. Per raccontare l’amore. In un’epoca dove tutto viene serializzato e riproposto all’infinito, è fin troppo facile (e avvilente) fraintendere gli ultimi trenta minuti di Doctor Sleep e la ricomparsa dell’Overlook Hotel come l’ennesima concessione a un pubblico pigro e viziato, che non aspetta altro di ritornare in maniera coatta e forzata a quello che già conosce. Ma Kubrick non è materiale da fan service, e figurarsi se a Flanagan interessa sporcarsi le mani con la blasfemia, oppure limitarsi banalmente al concetto di omaggio fine a se stesso. Non utilizza la CGI per riappropriarsi di volti ormai invecchiati o addirittura defunti ma li reimmagina, con un effetto stordente e al contempo innegabilmente coraggioso, prendendosi i suoi rischi per emanciparsi, allontanarsi sempre e comunque dal fantasma del capostipite.
Perché Doctor Sleep è innanzitutto un grande film sulle distanze, sul movimento, sul perpetuo avvicinarsi degli opposti (anche in termini libro/film); è un film sul volo (esattamente come lo era un altro grande sequel “impossibile”, L’esorcista II – L’eretico di John Boorman), dove a una parte iniziale che si sposta nel tempo (1980, 2011, il presente) segue un lungo blocco centrale che si muove nello spazio, da uno Stato all’altro dell’America, per seguire il peregrinare del Nodo alla ricerca di giovani ragazzi dotati di Luccicanza dei quali nutrirsi. E questo spostamento trova sempre una convergenza attraverso un gesto purissimo, che sia una dissolvenza - quante ce ne sono nel film? – oppure un controcampo, strumenti semplici e antichissimi che si fanno immediatamente cinema, in barba alle nuove tecnologie che rendono sempre più complicata la missione del Nodo (internet, cellulari e Netflix [!], citati esplicitamente nei dialoghi).
Sono distanze che si annullano perché arriva sempre il momento in cui doverci fare i conti («Hai un ultimo debito da pagare», dice il fantasma di Halloran a Danny prima di dirgli addio), quel momento in cui tutti noi dobbiamo ritornare all’Overlook Hotel, e non stupisce che Flanagan posticipi il più possibile quest’incontro, quasi volendo prima raccontare un altro film: come già nella serie Hill House – alla quale Doctor Sleep è legatissimo – i fantasmi diventano la nostra memoria, il collante del nostro vissuto, sono i padri che hanno perso la propria battaglia (Jack Torrance) e i figli che diventano padri a loro volta (il rapporto tra il protagonista e la giovane Abra) per sopperire alle mancanze di chi è venuto prima. È un film pieno di morti eppure gonfio di amore e di cuore, come nella migliore tradizione kinghiana, e non è un caso che il suono più ricorrente in colonna sonora sia quello di un battito; perché, come suggerisce la scena finale, di quei morti abbiamo bisogno tutti, per vivere veramente.
E quando infine viene affrontato il “padre” Shining e tutti i fantasmi vengono liberati, Flanagan effettua la riconciliazione definitiva, forse la più difficile di tutte, quella tra l’universo letterario e quello cinematografico: regalando all’Overlook quell’epifania di fuoco e fiamme voluta da King ma sempre negata da Kubrick.