The Knick/Soderbergh - Il racconto del contagio

L’ultima parte della produzione di Steven Soderbergh affronta la malattia in tutte le sue forme, creando intorno ad essa delle vere e proprie narrazioni virali.

Quando si parla di Steven Soderbergh, alzi la mano chi non è disposto a tacciarlo di essere un regista a dir poco alterno, paurosamente contradditorio. E’ una conseguenza inevitabile del cinema che il regista porta avanti da sempre e la sua filmografia, a ripercorrerla oggi, appare priva di un baricentro definito come poche altre. Perché Soderbergh è così, interlocutorio e sfuggente, soprattutto a se stesso. Sospeso dalla notte dei tempi tra un’anima commerciale e industriale e la vocazione per un cinema indipendente e sperimentale che egli non ha mai smesso di battere, con differenti fortune ma mai pago della propria ricerca. Perché il cinema di Soderbergh meno fedele alle regole dell’establishment hollywoodiano di fatto continua a consentirgli di muoversi con assoluta libertà dentro le strutture del mondo di oggi, interrogandole e interrogandosi, lavorando su diverse problematiche in totale autonomia. E l’ultimo Soderbergh, quello che in più di un’occasione ha minacciato di farla finita col cinema e appendere la macchina da presa al chiodo, ha esplorato soprattutto un’area tematica, declinandole in molte delle sue possibili implicazioni: la malattia, ovvero il contagio, ovvero la paura e l’eccitazione derivanti dalla prossimità fisica con un morbo e i suoi effetti. Un paranoia tutta contemporanea, ormai non più di primissimo pelo, che nella produzione del cineasta di Atlanta si fa sentimento fortissimo, sia esso pulsione di morte e volontà di autodistruzione o maniacale sospetto. C’è tutto questo, in The Knick , medical drama di cui Sodebergh ha diretto i dieci episodi della prima stagione e in cui Clive Owen interpreta John Thackery, un fascinoso e oppiomane medico chirurgo nella New York dell’alba del Novecento: un uomo narcisista, talentuosissimo e sprezzante che opera, in tutti i sensi, presso il Knickerbocker Hospital. Un personaggio così colmo di genialità sofferta, maledettismo ed echi decadenti che intorno a lui la malattia non diventa più solo oggetto di determinismo scientifico, che pure c’è ed è tantissimo, con scene di esasperato e vivido realismo organico, ma anche una suggestione dalla portata più grande, verrebbe da dire universale. Foriera di un’attrazione ancestrale e senza tempo oltre che di orrore purissimo, cosa che potrebbe accadere sia con dei versi di Baudelaire, oppiomane come Thackery, che con un resoconto dei giorni nostri, dettagliatissimo e molto tecnico, su un’epidemia di ebola in Africa. Una seduzione trasversale e pertanto aderente tanto alla scienza quanto al suo racconto letterario.

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Tale riflessione, un po’ a sorpresa, va anche oltre The Knick e si ramifica in due film precedenti di Soderbergh, entrambi piuttosto recenti. Dei film forse modesti, in parte goffi e non del tutto riusciti, non esenti da tutti i difetti che gli si possono facilmente cucire addosso, eppure rivelatori di un preciso discorso portato avanti dal regista in questi ultimi anni. Non tanto per legittimare Soderbergh con gli strumenti di una politica degli autori ormai sorpassata e che appartiene a tutti meno che a lui, così schizofrenico e propenso a sporcarsi le mani con grandi divi e grosse produzioni, quanto piuttosto per evidenziare la lucidità di un cineasta bistrattato con troppa faciloneria che almeno ci prova, a usare il cinema per tastare e far vivere le ossessioni del suo tempo, anche nel caso di una ricostruzione eccezionale e magnificamente retrò com’è quella di The Knick. E quale miglior modo della paura, per parlare dell’oggi? Non è un caso se la serie è piena di inquadrature che giocano con le focali, che evitano un centro prospettico, che riproducono tale timore attraverso uno spiazzamento continuo dell’immagine. L’inizio dell’ottavo episodio in tal senso è decisamente emblematico, e lo stesso si può dire del settimo in termini di efficacia di montaggio.

Rivedere Contagion, del 2011, ed Effetti collaterali, del 2013, in rapporto a The Knick concorre invece non solo a gettare su di essi nuova luce, al di là dei giudizi di valore, ma a smascherarne la condizione di film-saggio, un modus operandi che non a caso porta qualche critico e analista a parlare di Soderbergh in termini godardiani con sprezzo del pericolo. Nel primo, come in The Knick, la soundtrack è firmata tra l’altro dal genio compositivo ed elettronico di Cliff Martinez e costituisce l’altra faccia della medaglia, più sommessa e discreta, di una partitura che in entrambi i casi contribuisce a creare un atmosfera di incredibile tensione e che in The Knick, nei momenti più concitati, diventa addirittura terrore epidermico, dovuto alla frattura insanabile tra l’immagine e il sonoro e al loro contrappunto, una ferita a cielo aperto simile più all’effetto di una percussione spietata che a quello di un synth. Non poteva che essere così, in Contagion, autentico film-morbo dove ogni personaggio, guarda caso interpretato da una star ma non per questo immune, è un possibile veicolo patologico, un potenziale baccello, un bolide impazzito, appestato e temibile ben oltre i confini geografici, dall’America ad Hong Kong.

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Una vera narrazione virale, quella del film, in cui com’è naturale che sia la “trama” non esiste e segue un andamento molteplice, corale e scompaginato, assecondato dal regista con un stile che è estremamente clinico ed impersonale. La stessa cornice estetica – e narratologica, a ben vedere - di The Knick, che del grande affresco ha l’impersonalità ma anche la compattezza, e dell’altro Sodebergh ad esso direttamente prossimo, Effetti collaterali. Un film obliquo e dai contorni effimeri, in cui i farmaci, in via strettamente sperimentale, sono per forza di cose psicofarmaci, con implicazioni letali e depressive come il sonnambulismo e l’amnesia. La disgregazione psichica della Emily di Rooney Mara, che tenta comunque il suicidio pur avendo ritrovato il marito appena uscito dal carcere, è parente stretta della parabola discendente di John Thackery negli ultimi tre episodi di The Knick e della sua discesa agli inferi della dipendenza, dell’insonnia da workaholic e dell’autolesionismo. Cambia il contesto, ma la smania di dissoluzione è la stessa. Simbolo di un mondo che, oggi come agli albori del secolo scorso, a forza di tentare di sconfiggere la morte ha finito con l’affezionarsi ad essa.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 10/12/2014

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