Come fosse accenno di una struttura ipertestuale, la trama del secondo episodio del Decalogo viene ripresa e riassunta nell'ottavo episodio, sotto forma di parabola morale. Il contesto è quello di una lezione universitaria, durante la quale una studentessa evoca l'episodio:
«Un uomo sta morendo di cancro. È affidato alle cure di un medico bravissimo che, è importante per la storia, è credente; il dottore abita nello stesso edificio dove abitano il paziente e sua moglie. La moglie comincia a tormentare il dottore perché vuole sapere se il marito vivrà o morirà e quando dovrà accadere. Sono risposte che il medico non può darle: per lui equivale a emettere una sentenza e siccome è anche credente non può farlo in ogni caso. La moglie del paziente diventa così assillante da far nascere nel medico il sospetto che abbia un qualche particolare motivo che la spinge a voler sapere. I suoi sospetti si rivelano fondati: la donna è incinta di un altro uomo, il marito non sa nulla, ed in più si tratta della sua prima gravidanza, fino ad allora non aveva potuto avere figli. La donna ama quel figlio appena concepito ma ama anche il marito. Se lui vive lei dovrà interrompere la gravidanza, se invece lui muore potrà dare alla luce il figlio. Il medico deve decidere della vita del bambino, volente o nolente, e ne è consapevole».
Se l’uomo vive il bambino morirà, se l’uomo muore il bambino vivrà, e nel mezzo di queste due opzioni la scelta è della donna e del medico, che non possono scegliere ma devono farlo. È questo il problema posto al centro del secondo episodio della serie tv di Krzysztof Kieślowski (e del suo sceneggiatore storico Krzysztof Marek Piesiewicz): un dilemma lacerante, tragico, aporetico, impossibile da risolvere. Si tratta di un dilemma da interpretare? Se sì, come si accorda con il secondo comandamento, “Non nominare il nome di Dio invano”? Se no, di cosa si tratta? In altre parole, che tipo di posizione bisogna assumere di fronte al problema etico posto dall’episodio?
Riportare la trama del Decalogo 2 tramite le parole della studentessa dell’ottavo episodio è una piccola mossa, potremmo dire, anti-fenomenologica: per affrontare il problema non ci si avvicina a esso direttamente ma si devia per una strada più lunga; si devia per la strada di un dilemma etico, come potrebbe essere il problema del carrello, cioè per una formalizzazione, la messa in forma astratta della vita vissuta di alcune persone, di un problema realmente situato. Non è impossibile decidere di fronte al dilemma presentato dalla studentessa, ma risulta impossibile farlo nella vita reale in situazione. Allora questa piccola mossa anti-fenomenologica ci permette di rilevare due posizioni e le loro relative possibilità: una è quella in cui la contraddizione è formalizzata attraverso un costrutto morale che è consapevole della contraddizione stessa ma non ne soffre, piuttosto la spiega attraverso un metodo; l’altra è quella in cui la contraddizione è vissuta e sofferta in una fusione costitutiva con il soggetto: l’aporia irrisolvibile è la circostanza in cui vive l’individuo, è la verità per l’individuo. La presenza o l’assenza di distanza tra soggetto e problema è il discrimine che differenzia i due approcci: l’assenza di distanza nel secondo caso prende il nome di sprofondamento patetico, perché l’individuo è sprofondato nel problema, riposa indistinto in esso; la presenza di una distanza nel primo modo di affrontare la contraddizione si distingue invece come modo ironico.
Il modo ironico è sempre una distanza, perché è una misura: l’ironia è quella misura che si distanzia un poco dalla contraddizione per esserne consapevole, per avere il quadro completo; è la misura minima per distanziarsi senza staccarsi dalla contraddizione, senza essere in grado di risolverla; l’ironico è una misura di spiegazione. Questi due modi sono anche le due posizioni che lo sguardo può assumere mentre assiste alle vicende: esattamente come per la studentessa, che cerca di intonare il problema vissuto da altri in un modello a cui sia possibile rispondere, lo sguardo di chi assiste da spettatore alle vicende raccontate nell’Episodio 2 è spinto a rappresentarsi il problema come dilemma. L’occasione di scrivere del Decalogo è quindi occasione per pensare alla legittimità di una formalizzazione morale degli eventi raccontati, e quindi della direzione dello sguardo rispetto al vissuto. Se non è possibile vivere il vissuto di altri, la circostanza critica in cui abitano e quindi il tragico che devono sopportare, allora la misura ironico/morale è l’unica opzione possibile? Se il tragico è incomunicabile la risposta deve essere per forza l’ironia? Oppure esiste un altro modo, un altro sguardo?
È possibile, non può che essere possibile, perché lo sguardo è commosso: la commozione è il segno di qualcosa che non si è distanziato ironicamente ma è stato attratto, coinvolto in una danza, tanto che il sentimento provato diventa a posteriori quasi indistinguibile da quello vissuto da altri. Se non si distingue bene il sentimento è perché questo è confuso, con-fuso, fuso assieme con quello della donna, del dottore, dell’uomo. Questa con-fusione aperta da cosa è resa disponibile? Qual è la condizione dell’indistinzione del sentimento e della compassione con il tragico? La condizione non risiede nel soggetto, non è una mossa del soggetto come il distanziamento o il costrutto morale, bensì nell’opera. È l’opera che si rende disponibile alla compassione, si apre a un accesso patetico: essa allunga la mano verso lo sguardo, lo tocca, lo coinvolge; lo fa demoralizzando i costrutti, le formalizzazioni che possono segnare una distanza, decontraendo le sue potenzialità significanti, paradossalmente annullando le figure di significato, le tracce arbitrarie. L’opera naturalizza, scioglie le cose del mondo delle loro possibilità simboliche per assimilarle in un vissuto che non segue un significato prestabilito o rimanda ad altro (come fa appunto il simbolo), e lo fa più pienamente proprio quando sembra operare nel senso contrario.
La scena della mosca – ma si potrebbe scegliere anche quella della caduta del bicchiere, o del gambo della pianta piegato - funziona come esempio per questo processo: l’impossibile e insperata guarigione di Andrzej, il marito di Dorota, la donna protagonista (nel ruolo Krystyna Janda è straordinaria), avviene parallelamente alla risalita di una mosca che era rimasta mortalmente invischiata nel succo di fragola. Così si potrebbe intendere che il testo suggerisca che la risalita della mosca sul cucchiaio immerso nel succo stia lì allegoricamente, simbolicamente, per il ritorno alla vita di Andrzej. Questa tuttavia è solo una lettura parziale, che interpreta l’evento solo come un costrutto simbolico, distinguendo la cosa che accade – una mosca risale dal succo – dal suo significato – la rinascita di Andrzej; e invece non si deve ignorare la forza con cui, mentre la cosa sembra sul punto di definirsi simbolo, cioè di rimandare ad altro, il didascalico – la natura didascalica dell’accostamento mosca-Andrzej – insiste sulla matericità di ciò che sta avvenendo, la stessa matericità che avviene prima del significato, e contrae la cosa su se stessa, la costringe a restare in se stessa. Guardando l’insetto che disperatamente flette il suo corpo e le sue piccole zampe per arrampicarsi sul cucchiaio immerso nel denso succo rosso del vasetto di fragole portate da Dorota in dono a suo marito, ecco, guardando questo slancio vitale che si compie per se stesso e per propria volontà, per la volontà di sopravvivere e resistere anche mentre fuori il mondo gocciola morte, anche quando il tutto sembra barbarie e anche il sorriso si indurisce nel cristallo, sembra che l’esistente voglia solo esistere, allo stesso modo in cui “il colore brilla e vuole solo brillare”.
Così ciò che avviene vale per se stesso, accade, e questo vale per i sentimenti, che accadono, e per la tragica contraddizione irrisolvibile, che accade come circostanza che non è formalizzata in un costrutto simbolico a posteriori: a essere dissimulato è l’intervento creatore, l’arbitrarietà di una decisione predefinita. Di fronte a questa libertà dell’opera che vive e respira con lo stesso trasporto e la stessa intensità di chi guarda ci si sente coinvolti, si può respirare, si vede, si è implicati, e per questo è possibile sprofondare nel patetico dell’opera, abitare in essa, assumere la sua prospettiva, sentire il suo tragico. Questo non avviene nella postura della distanza ironico-morale che parla dell’opera, ma nel dare la parola all’opera, nel lasciarla sprofondare in sè per quello che è, nel lasciarsi implicare in questo inabissamento. Tutto ciò non vuol dire che gli eventi non hanno significato, ma solo che il significato non è distinto dalla natura intima della cosa: la vita è estremamente significativa nel suo mistero inaccessibile e questo mistero è l’aporia che sta alla base del problema della storia. Dorota non può scegliere, eppure deve; il medico non può scegliere, eppure deve; il tragico è l’impossibilità di demandare la scelta ad altri, anche quando sembra l’unica opzione possibile, e la necessità di sopportare il dolore di negare un mondo alternativo al mondo generato dalla scelta compiuta.
Tragica è la de-cisione che decide la vita, tragica è la creazione che porta all’atto una potenza e lascia che in potenza resti qualcos’altro (in tutto il Decalogo si irraggia la tensione potenza-atto), in una legge invalicabile che è molto al di là della legge morale degli uomini. E, proprio poiché la verità del creare è sempre un distruggere (si pensi al sorriso di Dorota quando lascia cadere il bicchiere), una scelta che non perde nulla non è una scelta, anzi, è una menzogna: Dorota mente ad Andrzej dicendogli che il figlio è suo e il primario forse mente alla propria fede, concedendo una sentenza - se per queste menzogne è possibile un margine di autenticità la discussione è aperta. Di fronte a questa impasse esistenziale anche lo sguardo è chiamato a posizionarsi: l’opera è l’occasione per lo sguardo di scegliere l’alternativa tra la misura ironica che è in grado di spiegare ciò che avviene – attraverso una serie di modelli e formalizzazioni morali – e lo sprofondamento patetico che non parla dell’opera ma le lascia la parola per essere implicata in essa. L’occhio, ogni volta che torna all’immagine di un tragico inconciliabile chiuso nel suo stesso mistero impossibile da aggirare concettualmente, rimane lì “lasciato in balia di se stesso alla ricerca del punto che circonda la terra”, per scegliere, creare, tra ciò che sembra un metodo e ciò che forse si avvicina a essere una verità.