La foresta di ghiaccio
Tra le innevate montagne di ghiaccio del Trentino, Claudio Noce gira un giallo robusto, ben interpretato ma, purtroppo, mal rappresentato.
Ci sono frontiere che trattengono, nei loro confini, le tracce del sangue versato per poterle attraversare. Una di queste traccia i limiti tra il Trentino e la Slovenia, passando per le montagne innevate e le foreste di giaccio. Luoghi di transito illegittimo di etnie in fuga, dalla guerra o dalla povertà dei loro rispettivi Paesi d’origine. Il film di Claudio Noce fa di questi confini la location adatta per storie di rancori e vendette, sensi di appartenenza etnica che induriscono gli animi. Nella bianchezza spietata delle alture selvagge, La foresta di ghiaccio si racconta attraverso l’uso di storie incrociate, da una parte presenta Pietro (Domenico Diele), giovane meccanico arrivato da un paesino nelle vicinanze di Gorizia per sistemare la meccanica di una diga idroelettrica abitata dall’eremita bosniaco Secondo, un gigantesco (nella sua imponenza fisica e convinzione attoriale) Emir Kusturica. Tra le trame di una fitta ragnatela di passati rancori ed illeciti traffici umani, avanzeranno tra i loro grovigli, Lana (un’algida Ksenia Rappoport) zoologa esperta di orsi e Lorenzo (Adriano Giannini), fratello di padre di Secondo,un cowboy che vive nel ghiaccio ma che sogna il caldo del Brasile. Il film di Noce è un giallo dove le tinte scure ed ombrose del noir cedono il passo al bianco più efferato, all’interno del quale si muovono le inquietanti (e mastodontiche) figure in nero dei suoi abitanti. Il tutto funziona per accumulo del dedotto, un’opera tesa e riuscita soprattutto nella prima mezz’ora dove la suspense si nutre dello scambio di sguardi e lo spettatore viene messo a confronto del celato che ne cattura la sua immediata attenzione. Purtroppo il film successivamente si perde in un confusa evoluzione narrativa, man mano che il nodo si scioglie i fili dell’intreccio di disperdono negli esili rivoli di una sceneggiatura mal rappresentata. La forza del soggetto, la buona interpretazione attoriale (di tutti gli attori), fattori questi per un’ottima riuscita, spesso vengono offuscati dall’esasperante uso di ridondanze estetizzanti. La dilatazione temporale dovuta all’uso (a volte) improprio dei ralenty troppo enfatici, che tra l’altro, si muovono nell’adiacenza visivo/musicale attraverso una selezione di repertori di musica classica, infastidiscono una storia solida che già di per se potrebbe funzionare a priori senza quest’uso smodato tipico di una grammatica cinematografica legata all’enfasi del genere rappresentato. I meravigliosi paesaggi incantati, lunari, e desolanti ben si prestano all’uso della magnificenza sinfonica ma spesso la regia (ed a volte anche il montaggio) eccelle nel virtuosismo appassionato, o del passo lento o della sovrapposizione in dissolvenza di immagini. Nonostante questo vezzo aiuti alla definizione del genere d’appartenenza, evolvendo narrativamente ed empaticamente verso un finale risolutore, spesso si dibatte litigando con una narrativita che non lo supporta. Lo scioglimento della vicenda vive a diverse riprese di un’accelerazione di sviluppo di linee narrative che necessitano il bisogno di essere sciolte con più calma, la matassa si accumula per tutto il film sciogliendosi troppo speditamente, perdendo in chiarezza narrativa nella velocità della sua conclusione. Il film di Claudio Noce non è un film da riporre nella sua totalità nel limbo del mal riuscito, rimanendo comunque (per certi versi) un film italiano di genere che possiede uno spessore, ben fotografato ed interpretato, ben scritto e con una buono script di base, un’opera che se non avesse voluto autorappresentarsi sarebbe stata una delle felici novità di un festival romano con pochi alti e molti bassi.