La luna su Torino

Sul 45 parallelo dove è poggiata la città (Torino) in cui vivono Maria, Ugo e Dario, i tre protagonisti allungano il collo oltre l’orizzonte sognando di toccare altri mondi, che siano la Mongolia, i paesi esotici o la cima di una salita da scalare. O forse, più semplicemente, l’amore. Una metafora non troppo sottile di come l’altro sia a portata di occhio, a patto di attraversare gli invisibili confini della propria persona con tutte le paure che questo comporta. Davide Ferrario aveva già affrontato l’incapacità di saper migliorare la propria vita in Dopo mezzanotte, di cui La luna su Torino è una costola, trovando nel cinema muto là, come qui nelle parole di Giacomo Leopardi diffusamente citate, un’ispirazione comportamentale sopravvissuta a decenni di distanza. Fermo restando che Leopardi davvero era ben più del lamentoso sfigato descritto nei programmi di italiano al liceo, e che ci fa piacere che riemerga dai polverosi scaffali dove è stato abbandonato, non basta la consapevolezza della ricchezza culturale del passato a fornire sostanza alla materia troppo inconsistente del film. Nella capacità di raccontare una certa leggerezza surreale frequentemente assente in un cinema che preferisce la risata grossa, Ferrario si fa certo onore, come onore gli fa trasformare Torino in una città fantastica al di sopra della realtà, labirinto notturno di strade e luoghi che sembrano esistere solo dopo il tramonto; ma viene meno nel coordinare questi elementi all’interno di una storia corale fondata sull’indecisione personale.

I personaggi si lasciano vivere, trasportati dagli incontri casuali, e accidentalmente prendono una decisione piuttosto di un’altra, come giocando a mosca cieca, le mani protese verso il buio. Le loro caratterizzazioni, più da macchietta che altro, favoriscono l’approvazione del pubblico rinunciando però a una reale disamina umana. Le voci fuoricampo, la felice sensazione che gli affetti possano cancellare la vaghezza imprecisa entro cui si vive appaiono modi sbrigativi per chiudere in positivo la storia, ed è un peccato aver rinunciato a definire questa precarietà affettiva ed esistenziale per illuminarla in toni esclusivamente consolatori. Spostandoci dal particolare al generale La luna su Torino riflette la deriva rasserenante di un certo cinema che annacqua i conflitti sociali odierni partendo da questi al solo scopo di trarne suggestioni narrative da risolvere in una finale pacificazione dei conflitti. Più che dare speranza – e la speranza, come insegna il film di Giovanni Veronesi anch’esso qui fuori concorso, può non essere una felice conquista – il vero intento di questa visione cinematografica sembra quello di mostrare un piccolo pezzo di realtà per poi affrettarsi a edulcorarne i risvolti più critici. In altri termini, ovviare all’accusa di non raccontare il nostro tempo, e poi rendere questo sul grande schermo in modi tali da non ferire troppo lo spettatore, offrendogli un ritratto di se stesso un poco traballante ma sempre confortante. Se il pubblico italiano sia davvero così suscettibile, o così venga immaginato solo da chi deve vendergli storie, è un quesito a cui non sappiamo dare risposta; ma certamente nel viziarlo con effigi indulgenti si contribuisce alla creazione di un vicolo cieco dal quale difficilmente, continuando su questa strada, si potrà uscire.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 17/08/2014

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