La rançon de la gloire
Per sbarcare il lunario due amici rubano la salma di Charlie Chaplin: inspiegabilmente in concorso l’ultimo film di Xavier Beauvois, talmente innocuo da essere privo di ogni interesse.
L’unico aspetto sorprendente di La rançon de la gloire è la sua presenza nel concorso principale del festival di Venezia. L’ultimo film di Xavier Beauvois è infatti un’operetta scialba, innocua e insapore, che intrattiene nelle sue due ore di durata e finisce poi direttamente nel dimenticatoio. Partendo dalla vera storia dei due uomini che nel marzo del 1978 rubarono la salma di Charlie Chaplin per costruirsi un garage, Beauvois riscrive da zero i due personaggi e le loro motivazioni, rendendoli due vagabondi che cercano in tutti i modi di sbarcare il lunario.
I sequestratori non sono affatto personalità rudi o immorali ma due poveracci dal gran cuore, quasi dei moderni charlot costretti a rubare ai ricchi per poter sopravvivere. Eddy, il più impulsivo tra i due, è appena uscito di prigione e, nei giorni che seguono la morte di Chaplin, trova la soluzione ai suoi problemi economici. Il suo piano geniale è quello di sequestrare la salma di quella stessa icona-simbolo che si poneva come difensore dei poveri, amico degli sfruttati, re dei vagabondi. Chi meglio di Chaplin per potersi riscattare? Eddy coinvolge nel piano il suo amico Osman, onesto lavoratore dai sani principi morali, con una moglie malata in ospedale e una figlia da mantenere: Beavois nobilizza i moventi del furto che passa ben presto in secondo piano. Quello che interessa al regista è infatti la complementarietà dei suoi protagonisti, la goffaggine delle loro azioni, la ricerca di un’empatia da parte del pubblico. Tuttavia, una volta identificati il meccanismo narrativo e il tono divertito della maggiorparte delle sequenze, La rançon de la gloire cade nel pericolo del ristagno: il film rimane sempre in superficie, incapace di qualsiasi intuizione che possa scuotere o approfondire maggiormente i suoi due eroi.
Forse la verità è che Beauvois utilizza una storiella di facciata che avanza verso un prevedibile happy end per poter omaggiare il suo nome tutelare. Il film, infatti, vorrebbe essere prima di tutto un atto d’amore nei confronti di Chaplin, ma anche qui il meccanismo si inceppa, non per mancanza di sincerità, ma per evidenti problemi di equilibrio. Lo sguardo di Beauvois fa quasi tenerezza per come cerca di elogiare il maestro, firmando un’opera certo onesta, ma fin troppo celebrativa e superficiale, che diviene sempre più goffa man mano che la famiglia Chaplin entra all’interno della storia. Il punto più basso del film è la richiesta di perdono di Osman e della sua famiglia davanti alla tomba di Chaplin, sorta di totem cui inginocchiarsi. Se il film fino a quel momento era riuscito a evitare il patetico, qui cade vertiginosamente in un eccesso di buonismo fin troppo schematico e sbrigativo. Tutto si risolve in prevedibili atti di misericordia e immancabili riunioni famigliari: ancora una volta la solita, zuccherosa melassa.
Una nota a parte sulla colonna sonora, così invadente da esplodere in diversi passaggi del film. Anche qui riecheggiano temi chapliniani, compreso quello di Luci della ribalta, ma questi omaggi musicali finiscono per far affondare le immagini stesse, troppo deboli e incolore per poter supportare melodie del genere.