La regola del gioco

Michael Cuesta e Jeremy Renner reinventano il thriller politico con un apologo sulla Verità che ha i tratti del biopic agiografico e del collage spettacolare

Mentre i media statunitensi, alle porte del nuovo millennio, se ne stavano coi riflettori puntati sul loro presidente, sullo studio ovale e su tutto ciò che lì dentro, più o meno impropriamente, stava avvenendo, un giornalista pubblicava su un quotidiano locale una delle più scomode inchieste che la storia recente della stampa americana ricordi.

Era il 1996 e Gary Webb, reporter del semi sconosciuto San José Mercury News, scopriva l’inquietante coinvolgimento della CIA nel finanziamento dei ribelli Contras in Nicaragua, un’oscura alleanza che risaliva il continente allargando la sua ombra criminale fino allo spaccio di droga negli Stati Uniti.

É una storia esplosiva, tanto forte quanto paradossalmente dimenticata quella che La regola del gioco, ultimo lungometraggio di Michael Cuesta, si propone di raccontare, esaltare e far uscire, per l’ennesima volta, dall’oblio.

Mettendo in scena la tenace ricerca dell’integro e integerrimo Webb – un Jeremy Renner mai così in parte dai tempi di The Hurt Locker – l’operazione del regista americano cala a capofitto su un terreno spoglio, incolto, lasciato libero da un immaginario per troppo tempo trascurato.

Con la lezione di Tutti gli uomini del Presidente ben impressa nella mente ma con una altrettanto forte consapevolezza espressiva legata alla contemporaneità, il regista dell’apprezzato L.I.E. mette tra parentesi un sottotesto propriamente politico e innalza l’immagine del suo giornalista a tipo universale, emblema dell’individuo ordinario sorretto dalla sola forza di un eroico senso morale e di un’etica del lavoro incrollabile.

Cuesta si butta sul biopic giornalistico edulcorandone le implicazioni da film-inchiesta e concentrando il suo occhio analitico sulla vicenda umana di un uomo solo in lotta per la Verità nell’ennesima riproposizione del biblico scontro tra Davide e Golia. Mettendo la propria esperienza di regista televisivo (Six Feet Under, Dexter, Homeland) al servizio di una materia che potrebbe risultare poco fruibile, complessa se non addirittura piattamente didascalica, il cineasta spettacolarizza l’inchiesta di Webb sbandando verso il thriller, verso una visione concitata e frenetica, che si fa racconto nervoso di una psiche provata ma determinata a perseguire un percorso d’integrità morale, ma che ha anche l’inevitabile alone dell’agiografia.

Tra agenti governativi reticenti, narcotrafficanti logorroici e guerriglieri incazzati, Cuesta assembla un viaggio che è un collage punk e adrenalinico sulle note anarcoidi dei Clash di Know Your Rights, un disvelamento cocciuto e tenace che la regia restituisce con l’immediata efficacia di una serie tv, con la semplificazione intelligente e compiaciuta di una storia che rinnega ogni dissonanza, qualsiasi rallentamento nel ritmo narrativo.

É una concitata esaltazione che inevitabilmente lascia terreno a un secondo tempo dove è l’insabbiamento a dominare, il discredito – tanto professionale quanto umano – a colorare coi tratti della paranoia una macchina del fango che, in tutta la sua proverbiale potenza, riporta il film sui binari di una tradizione ben consolidata, completando così un ritratto a tutto tondo capace di farsi emblema stesso di una vicenda che è, prima di tutto, una parabola umana, storia di un Davide tenace la cui eclatante vittoria ha l’amaro e paradossale retrogusto della sconfitta.

Sulle orme di un’epica laica e quotidiana in bilico costante tra la tradizione del genere e l’innovazione linguistica, tra l’esaltazione biografica e l’invettiva, tra una realtà documentaria e la sua (inevitabile) spettacolarizzazione, La regola del gioco porta con sé una tutt’altro che banale riflessione su realtà e sua mistificazione, su un’autenticità e una giustizia che diffida dello statuto di veridicità dell’immagine, delle parole, dell’istituzione ma che crede, fermamente, che una verità esista tra le pieghe di un mondo corrotto ma ancora indagabile, ancora capace di parlare a chi ha orecchie per ascoltare e occhi per vedere.

Forse è per questo che La regola del gioco, dietro la sua facciata accattivante e nervosa, ha il sentore irrimediabilmente datato di un film d’altri tempi. Probabilmente oggi, tra narrazioni dominate dall’ambiguità, dai chiaroscuri, dalla relativizzazione di uno sguardo che rifugge qualsiasi verità assoluta o visione totalizzante, lo spazio è davvero troppo stretto per storie tanto semplici nella loro pacatezza, per condanne poco urlate, tanto chiare e senza appello.

Non resta allora che concordare con una delle gole profonde di Webb, nella sua discesa implacabile verso la soluzione di un enigma che ha i caratteri sempre più nitidi di un Inferno calcolatore e opportunista. Certe storie, forse, sono troppo vere per essere raccontate.

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 10/03/2015

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