Non deve essere per niente semplice essere Roman Coppola. Quando provieni da una famiglia con quelle credenziali e hai per padre una leggenda colossale della storia del cinema e per sorella una delle autrici più incensate dell’autorialità americana contemporanea (una categoria sulla quale le discussioni potrebbero fioccare), ritagliarti uno spazio che non ti faccia sentire mortalmente inferiore può essere un’impresa assai ardua. E non a caso, in una sorta di eclissi che è difficile stabilire se autoimposta o forzata, Roman è sempre stato il più artigiano della celebre famiglia, l’eterno regista di seconda unità, il co-sceneggiatore e produttore dei film del prodigio Wes Anderson, il mestierante inesploso che quasi mai ha avuto la possibilità di dimostrare le proprie qualità da una posizione diretta e privilegiata. Il suo esordio in solitaria dietro la macchina da presa, CQ, era un film palesemente irrisolto, un omaggio al glorioso cinema italiano di Bava e Margheriti con un ben nutrito cast nostrano. Un’opera prima molto asfittica con più difetti che altro, tant’è che passano ben undici anni prima di vedere un nuovo film firmato dal Roman Coppola autore tout court.
A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III, presentato in concorso all’ultimo festival di Roma, titolo wertmulleriano e nome del protagonista chiaramente ispirato a Proust, è un film che a una prima, immediata lettura riconferma buona parte dei limiti registici del rampollo di casa Coppola: anzitutto, a farla da padrone è la costruzione costante e insistita di un situazionismo poco incisivo, che strappa la risata sghemba e strozzata dello spettatore oscillando tra due poli poi non così lontani come il grottesco e il surreale, aggiungendo e sottraendo di volta in volta colore o pienezza alla scena ma di fatto riuscendo a mutare ben poco la risonanza complessiva dei singoli momenti. L’uniformità di una scarsa ispirazione generale e di una scrittura sottotono finiscono infatti col livellare eccessivamente il film, privandolo di autentici scarti, rendendolo ripetitivo e circostanziale, abbarbicato a un proprio, autoreferenziale microcosmo. Nel tentativo di restituire la consistenza dell’umore del suo protagonista, annoiato, colmo di disagio sentimentale e immalinconito per la fine di una relazione importante, Coppola si dimentica in parte di costruire attorno al designer Charles Swan III interpretato da un sottilissimo Charlie Sheen (ottimo attore, quando vuole) uno script che abbia anche solo un barlume di solidità e che non anneghi in un situazionismo tutto sommato già visto, pienamente allineato con un target che suona perfino brutale riassumere sotto l’insopportabile egida dell’indie americano. Eppure, tant’è.
Da qui a bollare il film di Roman Coppola come la fastidiosa ed ennesima operetta di quella Nuova Hollywood chic e figlia di papà però ce ne passa. Perché A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III, nonostante gli inguaribili difetti sopraelencati che potrebbero sembrare una sorta di pietra tombale sul film, riesce paradossalmente nell’impresa di avere degli isolatissimi lampi di buon cinema, dei momenti che se non ottimi sono comunque interessanti, degni di essere ripensati e approfonditi un attimo in più: pur nella sua costituzione malferma, quello di Coppola è un film nostalgico e decadente su una Hollywood in via d’estinzione, su un’autorialità che finisce con l’essere mero design, semplice illustrazione priva d’anima. Roman flirta all’inizio con un’estetica decisamente fumettistica mostrandoci con tono scherzoso i pensieri quanto più basici che albergano nella mente dello sciupafemmine Charles Swan, si concede perfino un paio di gag che strizzano dichiaratamente l’occhio al cinema classico d’impronta slapstick, conferisce un’ombra buffonesca e goffa alle insicurezze croniche del protagonista, che proprio come lo Steve Zissou del film di Wes Anderson è un personaggio disordinato e caotico negli affetti nonostante si ponga verso il mondo esterno con un atteggiamento vagamente carismatico, con una sicurezza che di fatto non gli è affatto congeniale tanto da renderlo un leader decisamente cartoonesco.
In Charles Swan c’è molto di Coppola, anche per (parziale, smozzicata) ammissione del regista: di fatto sembra rifletterne le dinamiche caratteriali, le tutt’altro che implausibili frustrazioni, l’appartenenza ad un mondo ovattato fatto di malinconie e languide inconsistenze, di amici e parenti estrosi e magari anche talentuosi che vorticano attorno in un valzer figurativo senza sosta, quasi che, nelle intenzioni di Roman, dietro quegli occhiali scuri trasparenti di Charles si celasse l’ennesima trasfigurazione vecchia come il cucchio di un regista che si riversa nel suo protagonista con sincerità destabilizzante e totale (si noti come molti dei nomi dei personaggi, non a caso, coincidono anche con quelli degli attori), eternando il mito e gli onirismi trasognati dell’ 8 ½ felliniano in una riproposizione alternative e molto americana di quell’irrinunciabile punto di riferimento, un modello che nessun cineasta con pretese autoriali e tutt’altro artigianali può permettersi di non attraversare.
I rimandi a quel cinema inarrivabile hanno però il merito di non essere assolutamente stucchevoli, di mantenere un certo distacco e un ironico garbo anche nell’omaggio smaccato. Lo conferma la deliziosa parata finale sulla spiaggia che è un calco evidente del capolavoro di Fellini, con in più l’aggiunta deliziosa dell’abbattimento della quarta parete: gli attori che declamano il loro vero nome e quello del personaggio che hanno interpretato nel film, perfino l’autore della bellissima e azzeccatissima colonna sonora che si manifesta sulla scena (il bravo Liam Hayes) e ultimo ma non ultimo lo stesso Coppola che fa capolino da dietro la macchina da presa in uno smaccato omaggio all’Effetto notte truffautiano.
In fin dei conti, A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III è per l’appunto un evidente omaggio al cinema degli anni ’70, agli anni in cui il padre Francis Ford era all’apice e in Europa i grandi autori vivevano l’ultima stagione di gloria generale prima di subire il contraccolpo dell’imbastardimento e del mascheramento delle autorialità degli anni ’80, epoca in cui la loro commistione/compresenza col successo più marcato del cinema più popolare rese il panorama cinematografico internazionale molto più complesso e screziato di quanto non suggerissero le apparenze. Un atto d’amore assorto e segnato a quel cinema che non c’è più, che più che stare scomparendo forse è già scomparso e al quale non ci può attaccare se non nella forma algida e del ricordo, della reminiscenza intrisa di echi nostalgici. Ragion per cui lo Charles Swan di Roman Coppola è una sorta di decadente pseudoregista un po’ trafficone ma senza malizia, dalla moralità tipicamente wesandersoniana.
A proposito proprio dell’autore de I Tenenbaum, è innegabile che nonostante i suoi numerosi punti a sfavore e a dispetto delle annotazioni piuttosto critiche che possono essere rivolte al film nel suo complesso, il secondo film di Roman Coppola riesce a dare globalmente una vena un po’ più personale e autarchica alle atmosfere del cinema di Wes Anderson, facendoci comprendere, al di là dei facili rimandi, che forse a Roman si deve la componente meno pittorica e illustrativa ma in compenso più corrosiva e grottesca di alcuni titoli del giovane cineasta di Houston. A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III è infatti un titolo che non assolutizza l’aspetto visivo, comunque molto presente e curato, facendone un veicolo emozionale come nel cinema di Anderson, ma punta tutto sul rimando, sull’allusione simbolica, sulle invenzioni folgoranti e perfino comiche del singolo momento (la scena surreale e spionistica delle fidanzate rompipalle che indagano sui flirt con mezzi ipertecnologici, Bill Murray che balugina strizzando l’occhio a John Wayne, il bellissimo prefinale assai simbolico in cui Charles appare sotto forma di marionetta e la osserva – ossia osserva sé stesso – tra il sorriso e la lacrima contenuta, forse il momento più bello del film in assoluto…).
Avesse avuto una sceneggiatura più solida e robusta, una finalità meno sparigliata e un impianto non così deliberatamente privo di centro e quadratura, a quest’ora staremmo qui a parlare di un mezzo capolavoro. Ma è inutile scadere nella proiezione mentale beatificante di un film che tale non è nonostante i suoi innegabili meriti, che ci costringe di fatto a far prevalere le riserve iniziali e generali su qualsiasi altra considerazione possibile.