Un film sulla memoria collettiva e personale da riscoprire e riesplorare, ma anche la rievocazione di un recente e ben preciso frammento di storia italiana: quell’inizio degli eighties che oggi è contestualizzabile come una sorta di curioso limbo mediano, uno sfumato punto d’incontro tra gli anni di piombo con il loro terrore gelido e i più gioviali anni ’80 inoltrati, già forti della loro mitologia edonistica, del loro ottimismo più palpabile, della definitiva santificazione di un immaginario televisivo capace di veicolare gusti e comportamenti diversi.
A Roma, nel 1981, il professor Tessandroni viene ucciso dai brigatisti. Vent’anni dopo le sue due figlie, Caterina e Barbara, convivono con le proprie esistenze poco soddisfacenti, mettono in vendita la casa al mare di famiglia e piombano nell’abisso sepolto dei ricordi familiari, di luoghi rimossi che turbano e immalinconiscono. Una cornetta del telefono quale vincolo surreale che riunisce una Caterina ormai adulta con la propria omologa ancora bambina, una connessione che potrebbe sembrare solo uno snodo onirico della vicenda ma che forse è un mero stratagemma per veicolare un approccio esistenziale alla storia, per dare una chiave di lettura diversa alla riproposizione cinematografica del passato, non schierata o ideologica ma più votata al vagheggiamento e all’incanto di un’età incontaminata, dove è ancora possibile cambiare rotta, correggere, migliorare.
Il nuovo film di Susanna Nicchiarelli, già regista del a suo modo delizioso e nostalgico Cosmonauta, ha ambizioni tali che a illustrarle così viene l’acquolina in bocca, ma scendendo nel dettaglio della loro resa cinematografica gli entusiasmi si stemperano non poco e ci si ritrova dinanzi un risultato incredibilmente fragile e malfermo. Fin dalle prime scene si sceglie un approccio registico fatto più di ammiccamenti formali che di reale sostanza: il tessuto sonoro rock e formicolante del film, che culmina con un brano (omonimo) dei Subsonica sui titoli di coda, è da manualetto dell’indie e mal si sposa col tono del film fino a risultare perfino fastidioso e stridente.
Ma La scoperta dell’alba, duole dirlo, è un’opera rivedibile per ragioni ben più rilevanti, che soffre dei difetti tipici ed endemici del cinema italiano più asfittico: l’assenza totale di respiro, gli inciampi continui di una sceneggiatura che non decolla, lo scarsissimo approfondimento psicologico sui personaggi. Qui, in particolare, quest’ultimo punto a sfavore assume proporzioni insostenibili: Rubini e la Buy, fidanzati dal rapporto un po’ logoro, recitano e arrancano all’unisono, prigionieri dei soliti schemi affibbiatigli da registi con scarsissime idee. D’altronde, nonostante si tratti di due attori indubbiamente dotati non si possono far chissà quali miracoli con personaggi così mal scritti, più simili a bozzetti che a corpi vivi e molteplici.
La Nicchiarelli, qui anche attrice (interpreta l’altra sorella, Barbara, ma senza troppa convinzione), eclissa il brio e l’estro intravisti in Cosmonauta sotto un cumulo di forzature continue, di indugi pseudo-autoriali molto simili a contenitori vuoti che è davvero difficile riempire evitando che il sentore nitido del bluff salga alle narici, sulfureo e fastidioso. Rispetto al romanzo omonimo di Walter Veltroni da cui il film è tratto la regista cambia il sesso del protagonista scegliendo un approccio femminile, forse per poter rispecchiarsi in una sensibilità a lei più vicina e suggerire maggiore empatia. Ma sono proprio la partecipazione simpatetica e il coinvolgimento emotivo i grandi, imperdonabili assenti: nel suo tentativo artistoide di continua astrazione e rarefazione rispetto ai riferimenti più apertamente politici (e ironici) di Cosmonauta, la regista realizza un film del tutto raggomitolato su se stesso, involuto, incapace di affondare il coltello negli anfratti del racconto e nei solchi tematici solo suggeriti e che pure lo meriterebbero. Anche se il romanzo di partenza non è palesemente un capolavoro ed è più vicino a una contraffazione da supermarket della letteratura che ad un libro imperdibile, gli spunti in partenza c’erano e avevano bisogno senz’altro di un trattamento più oculato, più maturo, meno compiaciuto delle proprie derive espressive spacciate per intimismo. Citando il poeta greco Pindaro e ribaltandolo in chiave spregiativa, Lo scoperta dell’alba (titolo evocativo e bellissimo, purtroppo sprecato) somiglia al “sogno di un ombra”, al ricordo lontano di uno esilissimo scheletro filmico che, se in principio c’era, deve comunque essere palesemente sfuggito di mano a tal punto da far deragliare del tutto l’operazione e da limitarne all’osso ogni traccia di bontà.