Suburra
In una suburra romana d'acqua e fuoco, nelle stanze del potere la pietà annega e brucia, comunque nel nero muore
Il rosso cardinale è il colore del sangue e se lo si osserva di notte si tinge di nero. Le stanze del potere sono comunicanti, portano da un posto ad un altro, contigue estremità di un serpente anfibio che dalla suburra striscia e sale, scorre tra i banchi del parlamento, tra i piedi dei deputati, accarezzandoli quanto basta per esplicitare la sua silenziosa presenza, e prosegue, da stanza a stanza, per arrivare in alto, oltre le più alte terrazze romane, e quando è oramai distante dalla bassa suburra dove ha lasciato la coda, non potendo più raggiungere un colle migliore, si ferma a guardare desideroso il Cupolone stringendo Roma nella sua morsa velenosa.
Non c’è nessuna pietà, il sangue si smacchia solo con altro sangue. Suburra ci ricorda che il potere a Roma si struttura in maniera verticale, dalla strada o dalla spiaggia di Ostia fin dentro le sale più riservate, nelle feste più esclusive, negli alberghi più ricercati, congiunture spaziali verso quei luoghi dove di giorno si prendono decisioni importanti e dove di notte si mettono in pratica. Di giorno chiarore e trasparenza, di notte perdizione ed azione violenta. Cinematograficamente Roma è sempre stata rappresentata attraverso questa dualità - gli esempi sarebbero molti - Sollima aggiunge a questa una seconda dualità, strutturata sugli elementi naturali, tra acqua e fuoco. Il fuoco del sole e del giorno che può arrivare a bruciare se lo si accende nella notte, e l’acqua oscura, burrascosa ed incessante – violenta - che annega con debordante ferocia, bagna investe allaga, portando a galla il marcio che sotto Roma si nasconde – o che viene nascosto -, e salendo attraverso le sue intasate fognature trascina in superficie le sue fondamenta cancerogene e marce.
Suburra è un film sull’abbandono da parte delle figure maschili all’interno di un nucleo famigliare, è un’opera che pone come nucleo tematico decentrato i figli che cercano di gestire il lascito paterno. Tutti i figli di Suburra sentono con distacco e diversità il rapporto con il proprio padre, generazione precedente, passata e pensate, generazione invecchiata e morta, con più fosforo e meno sperma.
Stefano Sollima è un narratore necessario al cinema, ed alla serialità, italiana contemporanea. E’ un regista nazional-popolare e pop che riempie le sale con un cinema di genere. Ben venga. Se sommassimo questo aspetto ad una maturazione stilistica in costante ascesa, noi non potremmo che infine apprezzarlo. E man mano che prende confidenza con il respiro della grande sala acquista spessore e profondità. Caratteristiche queste necessarie quando si arriva all’interno del circuito cinematografico uscendo così dal piccolo schermo. Il respiro della narrazione e le sfumature di tonalità che appartengono alla caratterizzazione cinematografica, Sollima inizia a metabolizzarle, e se in precedenza le sue capacità si rivolgevano perlopiù alla storia dietro la rappresentazione, ora inizia a ben rappresentare la storia che vuole raccontare. La componente musicale spesso contrasta con l’aridità delle scene, troppo enfatizzante per certi versi, se da un lato unisce in ponte sonoro il montaggio spesso alternato, galvanizzando il pathos, dall’altro Sollima riprende in maniera asciutta e cruda la scena riempiendola a volte eccessivamente con la sottolineatura musicale, distraendo la visione. Dissociando così l’attenzione spettatoriale sulle immagini e dirigendola verso una componente uditiva spesso soverchiante. Ma il suo sguardo migliora, se nei suoi precedenti lavori tendeva a restringersi all’interno di una messa in scena schiacciata e di superficie, ritmica certo, narrativamente coinvolgente anche, ma comunque orientata verso una scelta formale e stilistica propria del mezzo televisivo (nelle serie Gomorra e Romnazo Criminale), qui raggiunge un livello superiore (ma ancora non totalmente maturo) rispetto al sua precedente ACAB. Attraverso una chiusa senza una catarsi drammatica – aspetto che avrebbe addolcito i palati spettatoriali oltre a riuscire a strutturare meglio l’anticlimax ricercato – lascia che sia la pioggia a lavare lo sporco, anzi, ad annegare i suoi antieroi senza una confortante – ed illusoria - pietà. Dopo l’Apocalisse la struttura del potere cambia rimanendo fedele al suo stesso stampo iniziale. Si sostituiscono gli uomini, si spostano le pedine, l’acqua allaga ed il tempo scorre, ma la scacchiera rimane sempre la stessa ed il gioco il medesimo. Dopo un Papa ne segue un altro, dopo un Primo Ministro segue uguale sorte, e quelli che rimangono fuori dalle fragili corazze parlamentari iniziano a sentire, dietro di loro, il fiato della magistratura. Ma se il mazziere è sempre lo stesso e conduce dallo stesso tavolo, che sia a destra o che sia a sinistra, il gioco non cambia. Dove regna il silenzio, la fede e la preghiera il luogo si carica di potere coercitivo, affari ed investimenti per una cordata collusa tra Mafia, Stato e Chiesa a favore di una speculazione edilizia sulle spiagge di Ostia.
Se la rappresentazione nelle precedenti opere del regista romano si facevano veicolatrici di una certa epica criminale qui il tema del sacro viene macchiato. Sacri sono i luoghi e sacri sono i personaggi, come il Samurai, figura spietata e silente, che si muove panneggiando al vento il suo mantello nero, - una figura simile al Ghost Dog di jarmusciana memoria bagnata dalla sporca pioggia di Ridley Scott - senza katana ma con una pistola che comunque non emette suono, silenziata, ed è difficile non immaginarsi dietro agli occhiali da vista indossati da Amendola un occhio di vetro. Partendo dall’omonimo romanzo scritto da Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, Sollima racconta una storia criminale intersecandola alla cronaca reale del nostro Paese e di Roma. Ambientato nel Novembre del 2011, all’interno di una settimana chiusa dalle date delle dimissioni di Silvio Berlusconi e di Joseph Ratzinger, è impossibile non riscontrare affinità con lo scandalo di Mafia Capitale avvenuto quasi in contemporanea, durante le riprese del film. Dietro a dei cognomi falsi i caratteri si nutrono della realtà cronachistica, così come la famiglia Anacleti può ben ricalcare le orme di un altro scandalo contemporaneo, il funerale di Vittorio Casamonica, così il Samurai è vicino alla carica di potere assunta da Massimo Carminati.
Più che un puro noir, caratterizzato da un’accumulazione emotiva ed onirica che sfocia spesso sul piano metafisico, Suburra è un film hard boiled crudo e spietato, vissuto da personaggi che collimano con una caratterizzazione perlopiù fumettistica, ma funzionali e paradigmatici rispetto al narrato ed all’arte del narrare. Il genere torna sul grande schermo, le sale si riempiono, Sollima tornerà con la serie omonima prodotta e distribuita dal lungimirante colosso americano Netflix, ed a noi non rimane che attenderla con ansia. Dopo ACAB e Suburra, film che rileggono attraverso il genere la parte più reazionaria del nostro Paese, attendiamo anche – soprattutto da Sollima – una trasfigurazione cinematografica e romanzata di qualche episodio appellabile all’ala di sinistra italiana. Almeno per il principio di par condicio.