I Miserabili
Raccontare la Francia delle insurrezioni come un film di David Ayer: si può fare? L'equilibrismo di Ladj Ly, in cerca della sintesi tra radicalismo e cinema d'intrattenimento.
Ragionare sull'incidenza di un impianto produttivo “commerciale” su un film come I Miserabili, che da queste meccaniche ambisce apparentemente a smarcarsi proponendosi come alternativa contestataria quando non direttamente riottosa, non è solo una pretestuosa menata etico-moralista. Il primo lungometraggio di Ladj Ly si pone come manifesto esaustivo, conflittuale e militante, della grande metropoli europea (non americana, è importante) negli anni delle tensioni etniche, della globalizzazione e della disoccupazione rabbiosa di massa. Ma è anche, e soprattutto, un film d'intrattenimento, persino “di cassetta” come si diceva una volta. Non c'è contraddizione?
La grande sensation dello scorso Cannes sembra a prima vista schierarsi sulla barricata dell'iperrealismo impegnato, a due passi dal cinema sociale di autori molto istituzionalizzati e francesi (Dardenne, Zonca), appena declinato verso la durezza urbana dei cugini più noir (Audiard, Brizé). Forma e racconto si discostano però subito da questo cinema, per abbracciarne un altro. Ly, assieme ai collaboratori in sceneggiatura Gederlini e Manenti - anche protagonista - sembrano scesi in strada con tutt'altri film in testa. Più che Olivier Marchand, i veri idoli di questi giovani cineasti sono Antoine Fuqua e David Ayer: l'America, l'azione, il thriller, in una parola Hollywood.
I nuovi diseredati cui I Miserabili si pone di dare voce sono gli ultimi eredi di un'utopia andata a male. Come nel glorioso 1998, quando il trionfo della Nazionale black-blanc-beur impose il sogno della nuova Francia unita, consumista e felice passando un colpo di vernice su decenni di ghettizzazione (un rimosso che sette anni più tardi sarebbe esploso in faccia allo Stato francese con le rivolte delle banlieue), così nell'estate del 2018 le terze generazioni di figli delle colonie si uniscono in un mare umano verso il centro di Parigi, per assistere alla finale e alla vittoria del Mondiale contro la Croazia. Generazioni ancora più marginalizzate, impoverite, ormai stabilmente rassegnate a sopravviversi in un ecosistema micro-criminale autosufficiente.
E' ancora Montfermeil dunque, come in Hugo; ma una Montfermiel californiana, strutturata (come stereotipi del genere vogliono) in piccole bande, piccoli boss, piccole alleanze in precario equilibrio. I tre sbirri Chris (Manenti), Gwada (Djibril Zonga) e il nuovo arrivato Ruiz (Damien Bonnard) provano come possibile a mantenere a colpi di soprusi e provocazioni l'equilibrio delle cité: entità politico-urbanistiche simili alle borgate dell'edilizia popolare italiana - e che con i quartieri-degrado marchiati dall'infamia dai tg sensazionalistici condividono il ruolo di catalizzatore di panico morale fascistoide. Gli agenti nuovi di questo affresco bosciano sono i bambini: silenziosi e giudicanti, osservano e nutrono un'inedita forma d'odio nei confronti tanto delle istituzioni repressive, quanto di padri e fratelli maggiori. Più che una generica discriminazione razziale (che a differenza della segregatissima società americana, nel calderone francese sembra faticare a definirsi ideologicamente all'infuori delle coordinate politiche lepeniane), è la passività della cité stessa a nutrire la rabbia senza sbocchi dei giovani misérables. L'atterraggio dell'uomo che cade dal palazzo avrà tutto l'aspetto delle scene che in questi giorni hanno rivoltato le strade dell'Ile de France; basta un pretesto scatenante, e come in ogni noir losangelino che si rispetti, il training day di Ruiz prenderà una piega tragica quando ai due colleghi sfuggirà la mano una volta di troppo.
I Miserabili racconta dunque questa complessa realtà con intento militante, ma lo fa con occhio rivolto più ai manierismi obbligatori del genere che alla forza della propria voce. Produttivamente, è molto meno marginale di quanto, tra camera a mano e colonna sonora minimale, ci terrebbe a dare l'impressione; si rivela presto come un prodotto molto mainstream, con una certa ambizione in termini di incassi e premi, un budget importante, riprese aeree, scene di massa e attori di sistema (Bonnard, peraltro bravissimo). Dai suoi modelli USA eredita tanto la travolgente potenza espressiva (ritmo a mille, cuore in gola, scansione della suspense), quanto quel tipo di semplicismo che ci si aspetterebbe da un film americano che provasse ad affrontare gli stessi temi.
Per essere un film che agiti le coscienze e si faccia manifesto dell'Europa multiculturale moderna, Les Misérables fa allora un po' fatica a collocarsi ideologicamente: non è un dramma sociale delle classi dimenticate sulla scia dei già citati Dardenne (troppo macchiettistico, troppi archetipi); non è una tragedia generazionale alla City of God sulla gioventù bruciata dei projects (gioventù che non parla, e se agisce è solo in chiave simbolica); non è neanche un'immersione nella schizofrenia disumanizzata dei picchiatori (come erano Tropa De Elite di José Padilha, o Acab di Stefano Sollima). È più un classico, impeccabile poliziesco urbano d'azione in cui “avete ragione tutti”, la città è spietata ma che vuoi farci, assolutorio con la polizia e paternalista con le minoranze (che si beccano anche la ramanzina per i roghi degli autobus durante le rivolte del novembre 2005).
Il vero metro di paragone, voluto e cercato fin nell'esplicita inquadratura finale, è ovviamente La Haine di Kassovitz, ancora la testimonianza più potente di un cinema politico stradaiolo in grado di farsi coscienza collettiva. Se di eredità bisogna parlare, il rapporto è un po' quello che al cugino americano Fa' La Cosa Giusta lega il recente (e bellissimo!) The Hate U Give; riproposizioni di sistema, normalizzate e tirate a lucido dai grandi professionisti degli studios, per un pubblico più ampio e meno conflittuale.
La contraddizione c'è quindi: è quella tra un cinema che sia sfogo e testimonianza urgente, e uno più colto, cinefilo quanto programmatico. Possono convivere questi due approcci? I Miserabili doveva andare ad Oscar, ma ha perso contro il film che di questa contrapposizione rappresenta la sintesi aurea. Parasite ha mostrato come il contenuto politico più radicale possa sposarsi alla forma più fresca e virtuosa; il film di Ly questo equilibrio lo trova solo da un lato, e se come End of Watch d'oltralpe è notevole, è più difficile credere alla sua rabbia.