Greta Gerwig è una figura centrale nel cinema indipendente americano. Dall’esordio nel movimento mumblecore di Joe Swanberg al sodalizio con Noah Baumbach, anche suo compagno, passando per le incursioni nel cinema hollywoodiano (come Amici, amanti e... di Ivan Reitman) ma tornando sempre al punto di partenza, ovvero alla reale genesi del suo essere artista. Un’artista che è certamente riduttivo costringere nel recinto dell’“attrice”: fin dall’inizio è un’attrice-autrice Greta Gerwig, visto che partecipa attivamente alla costruzione dei suoi film. Del resto Lady Bird non è un “vero” esordio alla regia, visto che ha co-diretto Nights and Weekends (2008) insieme allo stesso Swanberg, storia di un uomo e una donna che affrontano la difficoltà di una relazione a distanza (interpretati da Swanberg e Gerwig). Anche la pratica della scrittura c’è sempre stata: con Baumbach ha sceneggiato sia Frances Ha che Mistress America, che formano appunto un dittico, in cui il ruolo di Gerwig attore-autore risulta ulteriormente chiaro. Nessuna sorpresa dunque davanti a Lady Bird, da lei scritto e diretto, né davanti al risultato magistrale che l’autrice ottiene alla prima prova singola di regia.
«Chiunque parli dell’edonismo californiano non ha mai passato un Natale a Sacramento», dice Joan Didion nella citazione in esergo che apre il film, smentendo ironicamente il luogo comune della Beat in California. E a Sacramento, nel 1983, è nata anche Greta Gerwig, che configura subito il racconto come apertamente autobiografico. Saoirse Ronan è Greta, naturalmente: Christine McPherson è un’adolescente che preferisce farsi chiamare Lady Bird, sta finendo la scuola per avviarsi al college. Qui si installa il contrasto con la madre Marion, che vuole tenerla nell’università locale senza mandarla nella Est Coast, come vorrebbe la figlia. Il padre Larry viene licenziato, la famiglia ha pochi soldi, non può pagare una retta prestigiosa. Nel frattempo Christine sta crescendo e deve affrontare una prova peggiore della ristrettezza economica: la sua adolescenza. Una fase, lo sa bene Gerwig, da sempre segnata dal maggiore conflitto che conduce all’età adulta, la costruzione della propria identità. Nell’incipit Christine rifiuta la sua: «Sembro una di Sacramento?» chiede alla madre, mettendola subito in dubbio. Non usa il suo nome ma ne adotta un altro non di nascita e per scelta, in un’autoscrittura di sé, un tentativo di “autodefinizione” del proprio io fatto per colmare un vuoto, per darsi un’identità quando essa ancora manca. Per questo, a chi la chiama Christine, chiede di correggersi: inevitabile che passi dal rifiuto del nome vero, quello che le è stato dato. Allora perché, nella prima inquadratura, la ragazza e la madre dormono nello stesso letto? Attenzione: già adesso, prima di aprire un aspro conflitto, Gerwig ci sta segnalando che il legame c’è, è scritto nel sangue, è così e basta.
Christine/Lady Bird/Greta si pone allora la grande domanda che domina l’indie americano: Chi sono io? Come posso trovarmi? La protagonista vuole vivere qualcosa di unico ma non ci riesce («L’unica cosa memorabile del 2002 è il palindromo» dice, in questo film divinamente scritto): siamo nel pieno del viaggio verso la realizzazione, madre e figlia sono spesso in macchina, guidare è una metafora ricorrente. Non a caso l’autrice, come audiolibro che ascoltano le donne, sceglie Furore di John Steinbeck: il capolavoro dello scrittore di Salinas che narra il cammino di una famiglia povera verso gli aranceti della California, negli anni ’30 depressi, dunque un altro viaggio, un’altra ricerca di qualcosa che si pensa di trovare (ma non esistono le carote giganti, come attestava Nuovomondo di Crialese). Un’altra America passata ma comunque povera, che si specchia nella vicenda attuale della protagonista.
Il coming of age di Lady Bird dialoga col mondo chiuso che ha intorno: una comunità molto cattolica, non a caso si chiama sacramento, che ha accolto l’Undici Settembre come eco lontana, nel generico timore del terrorismo, dove Christine e l’amica in sovrappeso Julie guardano New York dalle foto sulle riviste. Gli sprazzi di comprensione si trovano nei luoghi più inaspettati, come nella figura di una suora illuminata. Nel frattempo si incontrano i ragazzi: il primo Danny (Lucas Hedges) che si dimostra gay “irrivelabile” dato il contorno, il secondo Kyle (Timothée Chalamet) semplicemente incompatibile, inadatto, chiuso nel guscio di uno sterile ribellismo intellettuale. Ancora la ricerca del “memorabile” finisce frustrata: il momento di condivisione della prima volta, a posteriori, si scoprirà non reciproco, e qui Gerwig ribalta mirabilmente lo stereotipo del first time previsto dal genere.
Il contrasto principale resta però quello con la madre, interpretata da una magnifica Laurie Metcalf: mamma rigida ma amorevole, che a ben vedere viene ritratta con una sottile ambiguità. Quali sono le reali ragioni della donna? Non vuole mandare la figlia al college per mancanza di soldi oppure perché vuole averla vicina? È un dilemma davvero indecidibile, perché nel dubbio tra economia e sentimento non c’è un esplicito scioglimento, ma alla fine il racconto suggerisce un’oscillazione decisiva: è nell’improvvisa inversione a U della donna, che torna verso l’aeroporto, quindi verso la figlia, nel picco più struggente. E Gerwig, attraverso la narrativa, compone una profonda dichiarazione d’amore verso la madre.
A livello ideale, inoltre, la madre Laurie Metcalf è il possibile negativo della madre Annette Bening vista in 20th Century Women di Mike Mills, altro gioiello indie, una mamma sessantottina che vuole educare il figlio alla più totale libertà, salvo poi, in entrambi i casi, affrancarsi dai genitori mantenendo il legame indissolubile (guardacaso Gerwig è nel cast di quel film, nella parte dell’amica/parente disfunzionale). Lady Bird si inserisce volutamente nel genere di riferimento, negli artisti del cinema indipendente che fanno squadra (si potrebbe citare perfino John Waters, basti guardare alla “grassa” Beanie Feldstein) ma è prossimo anche alla letteratura: non a caso il padre è interpretato da Tracy Letts, drammaturgo premio Pulitzer per August: Osage Country (da cui il film I segreti di Osage Country di John Wells), e non a caso a scuola si mette in scena La Tempesta di Shakespeare. Come gli incantesimi di Prospero costringono i personaggi alla totale immobilità, così anche Christine vuole liberarsi e lasciare il limitante contesto. Per questo una madre che invita a “non chiedere troppo” non può essere seguita. Nel percorso di realizzazione di una giovane donna c’è infine - in una certa misura - l’ombra del grande padre del romanzo americano contemporaneo, Jonathan Franzen: che in Purity costruisce il racconto su un titolo-nome (purezza), su una protagonista che lo cambia (si fa chiamare Pip) ma deve farci i conti, perché dal nome non si sfugge, e per Christine non è poi molto diverso.
Sembra una storia semplice, quella di Lady Bird, una lite su dove fare l’università, un conflitto atavico tra piccolo centro e grande città, una volontà di allontanarsi per aprire le ali. Una volta eseguita la fuga, però, la protagonista si guarda indietro e compie anch’essa un atto d’amore: si reca in chiesa, alla funzione come le hanno insegnato, e così ritorna alla madre, a un sentimento primario indistruttibile che ora si libera del soprannome. Non più Lady Bird ma solo Christine: «That’s the name you give me», è il nome che mi avete dato. Al contrario di Frances Handley, incompiuta, che vedeva il suo nome tagliato in Frances Ha. Per tutte queste ragioni sarebbe un equivoco liquidare il film come l’ennesima parabola di un freak americano: Lady Bird è l’indie migliore, che ripete coscientemente i topoi del genere ma che soprattutto è suo, di Greta Gerwig. Talmente suo che l’attrice preferisce non recitare, tenendosi a lato della propria storia. Una storia, intesa come successione di eventi, che non è certo il punto della questione. «La vita non ha una trama, perché devono averla i film?» diceva Jim Jarmusch, a proposito di indie. E così, lontano dalle regole hollywoodiane, Greta coglie un’essenza, tocca il senso intimo del cinema indipendente americano: dire, a cuore aperto, qualcosa di se stessi.