Leopardi/Martone - Il passato che rivive
Come già fatto col Risorgimento in Noi credevamo, Martone rilegge la figura di Leopardi all’insegna della modernità e della vitalità, alla larga da ogni bozzetto e agiografia.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl’italici petti il sangue mio
Giacomo Leopardi, All’Italia
C’è una chiara tensione comune, nel dittico che Mario Martone ha realizzato dal 2010 ad oggi. E non è difficile coglierla, al di là di ogni presunta zavorra didattica e delle accuse di rossellinismo fuori tempo massimo che in molti hanno rivolto all’autore napoletano ai tempi di Noi credevamo. Rimproveri che sono tornati alla ribalta anche a proposito de Il giovane favoloso, che qualcuno si ostina a ricondurre alla fiction tv più pigra o a una polverosa pedanteria antologica da libro di scuola, rifiutandosi di scorgerne i meriti e le ripetute accensioni, che invece sono in tutto e per tutto cinematografiche e ricorrono alla sinestesia – figura retorica propria della poesia – innestandola sulle immagini per associare suoni e colori, musiche e immagini (basti ricordare il magistrale utilizzo, straniante e commosso, delle partiture elettroniche di Apparat). Sono critiche che non stupiscono, ma che danno anche molto da pensare perché toccano uno snodo nevralgico della questione. La sfida di Martone, che avuto l’ardire fino ad oggi praticamente inedito di confrontarsi con due pietre angolari della storia del nostro paese, è infatti proprio quella di rileggere il Risorgimento e Leopardi alla luce di una nuova attualità e modernità, elevandoli al di sopra delle semplificazioni scolastiche che negli anni hanno tolto loro ogni vigore e spessore. L’intento del regista di Morte di un matematico napoletano, nel fare ciò, da filologo e cosciente letterato quale Martone è, non esula però dalle forme più congeniali a tali narrazioni, consapevole che ogni rilettura - come ogni rivoluzione - non può non muovere da basi consolidate e finanche tradizionali: ecco allora che Noi credevamo non può non prendere vita come un melodramma fluviale di oltre tre ore, mentre Il giovane favoloso non può prescindere dall’impostazione classica e statica del biopic romanzato, in cui entra in gioco perfino la riflessione sul filmare il verso poetico e la parola scritta (quanto di più prevedibile e convenzionale, sulla carta?), un aspetto sviluppato in un altro approfondimento di questo speciale e a dir poco stupefacente, a vedersi e a sentirsi.
Il punto, nonché l’elemento che fa la differenza, è che Martone, pur partendo da premesse risapute, le rinnova con un’energia inesauribile, trasformando entrambi i generi in meccanismi apocrifi, con deviazioni sorprendenti e fiammeggianti. E puntando, in tutt’e due i casi, a una sconcertante riabilitazione di una concretezza vitale per quel che riguarda due temi, il Risorgimento e la figura chiave di Giacomo Leopardi appunto, vessati da stanca retorica nazionale che ne ha asciugato ogni palpito per tramutarli in grigi bozzetti, in pallide riesumazioni delle quali nessuno pare più sentire la necessità e l’obbligo della memoria. Martone invece li affronta entrambi con la massima coscienza e lucidità, ben sapendo che una lettura realistica e vitalistica tanto del Risorgimento quanto di Leopardi è l’unico modo per renderli più vicini a noi contemporanei, per illuminare di nuovo un magistero perduto e snobbato da un paese senza più memoria. E’ un cinema che incide clamorosamente nel sociale, quello del Martone degli anni dieci del nuovo millennio, perché sa ritrovare la via maestra per raccontare le contraddizioni più vive e decisive della nostra Storia nazionale e non risolverle semplicisticamente. E’ per questa ragione che del Risorgimento Martone predilige i frammenti episodici, i cocci aguzzi delle ideologie più spinose e acuminate, che con i loro ferventi eccessi resero il processo di unificazione più complicato e composito (e ancora oggi irrisolto, probabilmente) di quanto la singola pagina o anche più paragrafi di un manuale di storia possano restituire. Le insurrezioni spesso finivano nel sangue e nei massacri, e solo nei migliori casi la loro eco proseguiva oltre. Ecco perché quello di Martone è un mélo singolare in cui la passione dell’ideale è messa a fuoco in modo ambiguo e inafferrabile, ma sempre e comunque con un occhio indirizzato alla prassi. Perché è l’azione concreta a fare da collante, da filo conduttore per riunire sotto la stessa, costante egida (l’imperfetto del titolo, tragicamente incompiuto) le tendenze più diverse.
E’ proprio questa dimensione attiva a ricollegare Noi credevamo con Il giovane favoloso, oltre alla prospettiva meridionalista e settaria (la Napoli leopardiana di Martone, vero e proprio girone infernale, fa il paio con la grande importanza tributata a Gramsci e Salvemini). Un’angolazione pragmatica che amplificava uno dei temi chiave del film precedente: l’individuale in luogo del collettivo, o meglio, l’impulso del singolo che diventa motore per mettere in circolo il sentimento dell’appartenenza dei più, per cementificare una coscienza che si faccia spinta volontaristica della comunità. Il verso di Leopardi che abbiamo posto in apertura a quest’articolo, tratto dalla canzone All’Italia del poeta recanatese (Dammi, o ciel, che sia foco Agl’italici petti il sangue mio), ci pare significativo di quest’ansia di trasfigurare i tormenti personali dentro un disegno più esteso, patriottico e sentito. Può sembrare un’affermazione ingenua anche per il suo tempo, come qualcuno ha rilevato, soprattutto se pronunciata dall’erede di una famiglia di nobili della provincia italiana dell’800 che nessun legame fisico poteva intrattenere con una realtà di lotte e insurrezioni, ma da esso, ancora oggi, trasuda tutto il prepotente vitalismo di Leopardi, non esente da derive sanguigne. Che ne Il giovane favoloso diventa urlo assordante anche se inespresso e solo sognato, ribellismo, insofferenza alle catene familiari, desiderio di rendere vivi e palpitanti anche i versi omerici, spogliandoli dell’austerità delle traduzioni realizzate fino a quel momento per trasformarle in delle liriche altre, quasi come se fossimo dentro le traduzioni di Vincenzo Monti (la scena in cui il Conte Monaldo riprende il figlio Giacomo sull’arditezza di una sua libera interpretazione dell’Odissea).
Il favoloso Leopardi di Martone, insomma, si dona in tutta la sua fragilità a chi lo guarda, come una figura idealizzata mitologicamente, fin dal titolo, ma anche come una sagoma in tutto e per tutto verisimile che reclama il suo posto nel mondo, che ha bisogno degli “inciampi del cuore” e delle umane debolezze così come il Risorgimento aveva bisogno dei suoi dissidi interni per articolarsi in movimento sovversivo sfaccettato e complesso. Senza i propri difetti, sembra dirci Martone, non esiste né l’uomo, né il genio, né la storia, né niente che si possa assoggettare sotto la sfera dell’umano. E’ questa la nuova, ultima, grande consapevolezza del suo cinema.