Annette
Nella cornice del Bifest 2021, Leos Carax ha presentato in anteprima italiana Annette, premio per la miglior regia a Cannes 74. Dopo Holy Motors, torna l'ossessione dell'autore francese sulla natura del cinema, sulla sua immagine viva e lo sguardo sul mondo dello spettacolo.
Henry McHenry e Ann Defrasnoux si dividono i palcoscenici di Hollywood e si amano condividendo i rispettivi successi, cullando un divismo esagerato nella somma delle loro immagini pubbliche. Lui è uno stand-up comedian, fa soffocare dal ridere il suo pubblico con una comicità non del tutto ilare e più propriamente feroce (come avviene per la messinscena della sparatoria al Bataclan); l’altra è un soprano di fama mondiale, canta la tragedia con tono purissimo e profetico, vestita di sangue e accasciata col corpo su una scenografia da film espressionista. Il prodotto (letterale) della loro unione è una bambina, Annette, che genererà degli squilibri e porterà la tragedia dal teatro alla vita dei due amanti, assurgendo infine – da enfant troppo prodige per essere vero, dunque non umano, burattino – a sintesi dei loro successi.
Ma facciamo un passo indietro. Perché l’orientamento più comodo e naturale per interrogare l’approccio di Leos Carax ad Annette, premio per la miglior regia a Cannes 74, non può che muovere assecondando la domanda dell’autore in apertura del film. Siamo in uno studio di registrazione. “So may we start?” chiede il regista alla band degli Sparks, che trasforma queste parole in canzone e avvia il film con un’ouverture da classico musical. Tutto il team della produzione marcia fuori dallo studio di registrazione, raggiunto dal cast, con Adam Driver, Marion Cotillard e Simon Helberg, prima che il titolo sbarchi su sfondo nero e separi quelle immagini dall’immersione nella finzione vera e propria. Per critici ed esperti del settore, Holy Motors è stato il film che meglio si è pronunciato sull’immagine filmica nell’ultimo ventennio. Ora, a distanza di 8 anni dal capolavoro di Carax, con Annette il dialogo tra immagine e sguardo si fa schietto, conclamato, calato com’è entro una cornice che dichiara apertamente l’evidenza della finzione e acuisce la necessità della partecipazione dello sguardo spettatoriale. Se lo poniamo in rilievo è perché, facendosi il suo statuto autoevidente e raccontando al suo interno una storia d’amore e di spettacolo, sembra che Carax voglia perseguire l’essenza, la dote più pura che il cinema possa offrire. Quale? Quella che fa parlare le immagini di sé, della propria natura, e le rende sensibili, vive perché emotive, cariche d’amore.
E “we love each other so much” è quello che cantano Henry e Ann. Lo fanno ad infinitum e ad nauseam, sottovoce nei boschi o gridandolo in moto. Poco importa che l’autenticità del sentimento ceda sotto i colpi dell’ego, perché anche l’amore per il proprio successo dà profondità alle immagini, come quando osserviamo nel dietro le quinte Henry ammirare teso e invidioso Ann, che muore performativamente sotto scroscianti applausi a teatro, e la guarda poi su un display mentre si inchina con un sorriso pieno, un gesto grato e godurioso, attraverso la ripresa sgranata di una videocamera di sorveglianza. È sempre una questione di vista e di messa in quadro, che si tratti appunto di un display (il successo della stessa Annette sarà attestato mediante questa forma, coi suoi voli su palco riprodotti tra smartphone e tablet) o di un proscenio, dove la pienezza egotica di Henry dice dell’amore per lo spettacolo e per il successo. La dimensione performativa partecipa allora a questa realizzazione, specie perché i piani del teatro e del cinema scivolano l’uno sull’altro mettendo in moto un processo di tridimensionalizzazione della rappresentazione, quindi dell’immagine. Ann accede ad una foresta che si apre sul fondo del proscenio asettico e grigio in cui sta cantando, per poi farvi ritorno dalla stessa soglia. Henry interroga il pubblico che conosce le battute e replica in coro, prima docile poi veemente. Senza questo supporto lo spettacolo risulterebbe monco: è il cinema a modificarne la natura acuendone le possibilità. E oltre i palcoscenici, nel backstage di Henry, per strada e a casa, il teatro interviene a cancellare l’impressione di realtà del cinema. Certo, questo perché Annette è un musical, il recitato si fa cantato. Ma tutto è spettacolo. Persino il Me Too, le cui battute da repertorio nei notiziari vengono appiattite su schermo e musicate (i giornalisti chiedono, ovviamente, “why now?”, le sei ragazze vittime di violenza diranno in coro “all with a similar story”).
Anche l’ampio citazionismo sta lì a mostrare la traccia della storia, teatrale e cinematografica, affinché questa possa essere ancora materia viva e funzionare nel presente. Carax ricrea e rimette in scena: Ann annega scendendo lentamente nel fondale del mare come in The night of the hunter (1955); Henry sfrutta la figlia rendendola una diva come Svengali in Trilby (romanzo di George du Maurier del 1894); l’immagine fantasmatica del gorilla attinge a più riferimenti (è, per di più, l’immagine per eccellenza dello shock, dell’innovazione al cinema, come scriveva Mark Cousins); ovviamente la lettura di Pinocchio nella veste da burattino della piccola Annette; e tutta la teatralità melodrammatica di King Vidor, per primo ringraziato dal regista stesso nei titoli di coda.
In voice over all’inizio del film, Carax aveva chiesto di trattenere il respiro per tutta la durata della visione. Proprio in questi giorni sta passando in sala The card counter, in cui la voce del protagonista, Oscar Isaac, accompagna la colonna sonora con un respiro affannoso, sofferente. Schrader e Carax sono evidentemente due maestri lontanissimi, incomparabili (e grazie tante), ma è curioso tentare di leggere, nelle contrizioni dell’uno e nella teatralità sensuosa dell’altro, un uguale riconoscimento del respiro delle immagini. La trattenuta del soffio o la liberazione polmonare dicono qualcosa di un cinema che è sì oggetto per loro numinoso, ma soprattutto da percepire come organo vivo.
Nella sua risoluzione tragica, Adam Driver guarda in macchina e impone di non essere più guardato. “Stop watching me”, titoli di coda e corteo del cast per ringraziare lo spettatore. Le immagini possono smettere di respirare e noi finalmente possiamo svuotare i polmoni da quella trattenuta.