“Storia strana, la storia del nostro mondo:
non tutta del mondo, non tutta nostra, non tutta storia;
non tutta così strana”
Paul Celan
Al confine naturale della Francia con la Manica c’è il porto di Calais: ultimo avamposto per quei “brutti e sporchi” Ulisse contemporanei che nessuna terra vuole, neanche la nostra e neanche la loro, senza un ritorno, senza un’Itaca, senza il mito che li onora. Les Éclats, i frammenti raccolti dal terreno umido, i ricordi di passaggi impigliati tra gli alberi, ciò che sopravvive al cammino del migrante, dei teli, un braciere spento e poi uomini e uomini, principalmente Eritrei, Sudanesi, Iracheni, Afghani ed Albanesi a guardare il mare, a porre lo sguardo verso l’orizzonte, non importa quale, oltre le colonne della loro stessa tragica mitologia, senza una terra in vista ma, sempre, con una terra da raggiungere, con in bocca il gusto amaro di una vita fuggita e “nuda” e rincorsa solo per il sapore dolce di una vita vestita “da assaporare”.
Autore e filosofo insieme, Sylvain George, cineasta francese di lungo corso, ci presenta l’ultimo tassello della sua trilogia, Les Éclats appunto, vincitore a Torino dell’anno passato del Premio al miglior documentario internazionale e che completa ed arricchisce il suo sguardo sui flussi migratori in Europa. Sguardo posto sempre dal di dentro della riflessione in questione, tanto da restituirci delle istantanee di immigrazione clandestina, a volte fuse con gli studenti rivoltosi come nel primo tassello della trilogia L’impossible, a volte in viaggio per raggiungere la stessa Calais come ci racconta nell’altro suo pluripremiato documentario Qu’ils reposent en révolte, a volte incapaci di camminare, di avanzare verso la Vita, verso l’estremo baluardo migratorio sconfitto dal mare della Manica; una nuova impresa arrischiata dalla polizia che ben conoscono, con un piede oltre la rete di recinzione dell’impossibile e l’altro dalla parte del porto delle speranze. Polpastrelli bruciati col fuoco, prodotti chimici che sconfiggono l’identità personale, un recinto di sogni umani schiavizzati dai protocolli paludosi e melmosi burocratici europei. Le leggi di Dublino vietano ad una persona, le cui impronte siano state registrate in un Paese della zona Schengen, la possibilità di richiedere asilo in un altro Paese. Le impronte vengono immediatamente inserite in uno schedario, l’Eurodac, consultabile da tutti i Paesi: che “l’Europa marchia a fuoco i propri migranti, non è più una metafora” questo ci ricorda in un’intervista lo stesso regista. Un labirinto di terra, mare, di guerra scampata, di odio fuggito, di paura del senzaterra, del terrorista, un ingarbugliamento senza sbocco, un cul de sac senza via d’uscita se non un attraverso un pericoloso passaggio in mare, oltre l’acqua nera della politica, delle convenzioni e delle regole per gli altri a cui mai apparteniamo. Le ombre di uomini morti parlano, le loro rincorse e le loro fughe dai rispettivi Paesi d’origine vengono raccontate, sono storie che già conosciamo, di cui si parla, tangibili tanto quanto un ideale, tanto quanto la Storia degli altri. Il dolore è represso nel singhiozzo che precede il pianto, la parola e mozzata mentre nessuna lacrima scende sui volti non più abituati all’umidità della propria debolezza, su visi ancora giovani ma già macchiati da cicatrici fatte quando ancora non li conoscevamo, prima ancora che il regista ce li presentasse.
Al di là da facili pietismi, Sylvain George ci dimostra chi sono quelli che vivono in mezzo alla giungla di pupazzi usati, di fondi di bottiglia e che dormono sotto una “luna morta piccola”: senza terra, senza Storia e senza alcun Diritto. Il bianco e nero usato scardina le tensioni verso qualsivoglia fariseismo, non cadendo nel compromesso della commiserazione tanto usata, sia dai poteri forti in quando stigmatizzazione del migrante attraverso il suo carattere umanitario, sia dalla rappresentazione del migrante fatta dal filone documentarista contemporaneo, che ne subisce le stesse conseguenze. Il regista si mantiene ai bordi del pietismo, non ci si mischia, non usa quasi mai l’accompagnamento musicale per raccontare e raccordare le immagini, già cariche di primi piani, che già possiedono una sonorità implicita nel loro susseguirsi. Concetto molto più vicino alla frammentazione fotografica e fenomenologica dei “Ciné-Tracts” di quanto si possa immaginare. Solo alcuni intervalli, frammenti di immagini che rimbalzano dal campo al fuori campo, in barba al principio di causa-effetto aristotelico, sono accompagnati dalla musica blues, ma di un blues misterioso ed ambivalente, forte e dolce allo stesso battito. Il cinema per il regista sembra possedere la forza del non mostrato, cioè quella sensazione di sereno ed emotivo appagamento che proviene dalla differenza tra l’immagine fisica e l’immagine mancata: “Un film si costruisce con delle immagini fisiche, materiali e con delle immagini immateriali, assenti, mancanti: immagini che si trovano nel fuori campo delle riprese, immagini non montate, non girate, immagini mnemoniche che restano nella memoria, immagini del passato… Questo gioco dialettico tra le immagini mancanti e le immagini presenti apre le sfere del politico, dell’etico e del poetico“. E nel documentario queste contraddizioni vivono in diverse forme che generano verità assoluta e viva, a partire dal bianco e nero contrastato fotografico, che unisce il bianco del cielo, della neve, dei sogni e delle speranze di esuli al nero della terra, della pelle, del mare di notte, dei rami al vento. Documentario presentato al Contest del Cinema Aquila da parte di Les Éclats Italia, un duo femminile composto da Paola Cassano e Caterina Renzi, promotrici di un cinema lontano dai nostri schermi e sconosciuto in Italia e che merita di essere conosciuto, tanto quanto questo regista, Sylvain George, che aspettiamo con il suo ultimo lavoro, Vers Madrid, presentato all’appena concluso festival torinese.