Torino 2012 / Call Girl

Quote rosa, pari opportunità ed emancipazione femminile dipingono il ruolo della donna nella società in un quadro che sfiora il grottesco. Sono solo le parole di fantocci mascherati da politici. Anche se non proprio di fantocci si tratta, dato che agiscono e decidono, coordinando manovre mai completamente trasparenti. Con uno zoom out ci si allontana dall’immagine incerta e fuori fuoco di uno schermo televisivo, per immergersi completamente in una realtà non troppo lontana. Stoccolma, 1976. La fotografia a tinte vintage riesce a delineare con precisione e sottigliezza storica lo spirito dell’epoca, cui si aggiunge uno humor di fondo che scorre parallelo al dramma di due ragazze, senza mai attenuarlo. Non c’è scalpore in Call Girl, tutto è raccontato con un’aderenza a fatti di cronaca che garantiscono una maggiore partecipazione. Opera prima del regista televisivo Mikael Marcimain, questo suo lavoro partecipa al Festival di Torino raccogliendo un grande entusiasmo. Il regista svedese conduce lo spettatore in una dimensione cruda, dove la prostituzione è all’ordine del giorno e lo sfruttamento minorile raramente viene punito. Con uno sguardo indagatore Marcimain sottolinea uno scandalo politico dove droga, sesso e corruzione dilagano a macchia d’olio fino a raggiungere le schiere dei difensori della giustizia.

Iris e Sonja, la cugina coetanea e migliore amica, si ritrovano a condividere mense e corridoi della Casa Minorile Alsunda. Quattordicenne irrequieta, Iris finisce per coinvolgere nelle continue fughe notturne anche la più mansueta Sonja. E mentre il Primo Ministro pronuncia nobili discorsi sull’uguaglianza di gender, feste e soldi facili si consumano in palazzine dalla facciata rispettabile che mettono a nudo stanze sudate. Un’organizzata rete di interscambi tra autorità e governo contribuisce a sporcare giustizia e sicurezza, concetti già ampiamente infangati. L’importante è tenere a bada la popolazione per le elezioni, di cui un ampio spettro di fiducia è riposta nel gentil sesso. L’impegno del cinema politico attraversa tutta l’opera, evitando il distacco del taglio documentaristico per affondare la mano sul thriller, accentuato ulteriormente dalle tinte scure del noir più classico. Cosparso di fitti richiami, Call Girl si avvale di un gusto retrò tratteggiato da un personalissimo stile che appare “decentrato” rispetto alle pellicole hollywoodiane cui vuole richiamarsi. Strizzando l’occhio a Pakula e Pollak, Marcimain apporta quella visione originale a conferma dell’interesse che ha iniziato ad accentrarsi sul cinema svedese già a partire dalle pellicole tratte dalla trilogia Millennium, ora quasi un fenomeno cult. Eredi di già classici come Tutti gli uomini del presidente, La talpa e Frost/Nixon, Call Girl riporta in auge tutto un filone del cinema americano anni ’70, forte di una padronanza tecnica degna di nota. Intuizioni formali attraversate da un’evidente forza estetica si coniugano con un montaggio a tratti accelerato a tratti più pacato, perfettamente in grado di sintetizzare concetti profondi che oltrepassano la pastosità granulosa della pellicola. Il ritmo incessante scaraventa dentro universi ancorati a corpi mercificati che cuciono verità in orifizi primordiali. Costosa co-produzione europea, Call Girl colpisce per il gusto raffinato che indugia su tonalità calde, insiste su dettagli e focalizza su un uso della punteggiatura filmica, accorgimenti che si sposano completamente con il sapore che pervade l’intero lavoro, restituendo un’attenzione filologica rigorosa.

Il film, oltre a denunciare l’ipocrisia di cui si macchia la società politica svedese dell’epoca ed evidenziare le dinamiche morbose dietro ai rapporti di potere, adotta uno sguardo autoriflessivo sul campo dei mass-media. I mezzi di registrazione e riproduzione disseminati per tutto l’arco narrativo ribadiscono non solo l’esattezza della ricostruzione storica, ma anche l’ossessione per il controllo che vittimizza l’informazione, ricordando drammaticamente le conseguenze dei sistemi totalitari. Un cerchio che si chiude nel metalinguismo che dà avvio al film, l’immagine sgranata di un politico in televisione le cui parole si fanno progressivamente più distorte in proporzione alla maggiore nitidezza della visione. Soggetto complesso e sapiente regia hanno rivelato un regista da tenere sotto i riflettori.

Autore: Marta Gasparroni
Pubblicato il 20/01/2015

Articoli correlati

Ultimi della categoria