Life - Non oltrepassare il limite
Il film di Daniel Espinosa aggiunge un tassello in più al percorso sintetico del blockbuster americano, sancendo ulteriormente la subordinazione dell'umano all'artificio del digitale.
L’avvento delle tecnologie digitali, in ogni fase del processo creativo e produttivo, ha mutato le modalità realizzative dei film, causando una serie di scosse di assestamento che si sono allargate anche all’ambito della distribuzione e dell’esercizio. Il blockbuster americano si è rivelato in grado di elaborare questo cambiamento epocale meglio di quanto non abbia fatto il cinema d’autore. La contaminazione con la frontiera digitale è obbligata, ma la conservazione di stilemi narrativi classici è necessaria.
Lo dimostra Tony Stark, supereroe multimediale, il cui corpo sopravvive grazie all’auto-innesto della tecnologia. O ancora l’Ethan Hunt di Mission: Impossible - Ghost Protocol, dotato di un corpo-attrazione con lo sguardo virtuale di un iPhone che compensa la sua cecità fisica.
In tempi più recenti, Avengers: Age of Ultron ha esemplificato la dialettica tra passato e futuro del blockbuster: iper-tecnologica Stark Tower o modesta casetta nella prateria? Lo stesso J.A.R.V.I.S., ferito nella coscienza, rinasce a partire dal suo innesto nell’androide nato da cellule umane, Visione. Nello scontro finale in cui il protagonista di Blackhat di Michael Mann affronta fisicamente i cybercriminali, persino i loro movimenti sembrano ridotti a moti digitali. Il corpo umano si informatizza e l’analogico diviene digitale. L’elemento ponte tra i due statuti mediali è rivestito dall’atto del guardare e dalla centralità dell’essere umano; è la singolarità dell’immagine-affezione a garantire il residuo dell’elemento umano nell’universo digitale.
Kong: Skull Island, uscito al cinema poche settimane fa, ha invertito la rotta sottoponendo l’esistenza dell’essere umano (il residuo classico) all’elemento mostruoso e rovesciando completamente l’antropocentrismo di Gravity di Alfonso Cuaron, da cui Life - Non oltrepassare il limite si allontana ulteriormente.
La prima sequenza del film di Daniel Espinosa, sulla falsa riga del long-take spiaziale di Cuaron, esplora lo spazio scenografico dell’astronave: uno sguardo totalmente impersonale, che riduce la macchina da presa ad un drone, mostra una serie di astronauti in attesa di un’operazione di recupero di campioni provenienti da Marte. La sequenza termina con il riflesso del volto del personaggio interpretato da Jake Gyllenhall, in concomitanza con l’arrivo della navicella che trasporta i materiali marziani: elemento umano e alieno iniziano a convivere nella stessa inquadratura, in una sorta di dissolvenza incrociata. Nel frattempo, sulla scorta del Billy Lynnn di Ang Lee, il controcampo della missione ha assunto la dimensione di un evento globale, totalmente mediatizzato e trasmesso sugli schermi giganti di Times Square. Ma, ancora una volta, la verità non potrà essere colta da nessuno sguardo digitale, restando confinata nell’ambito di una capsula di salvataggio che funge da grembo materno per la creazione di un nuovo mostro che non ha solamente usufruito del supporto di un essere umano ma lo ha fagocitato, riducendolo al suo corpo e al suo intelletto.
A differenza di Gravity, in cui il percorso di crescita e di affermazione dell\'identità portava lo spettatore a conoscere svariati aspetti dei personaggi con cui interagire, la prospettiva di Life rende pressoché pleonastico l’essere umano, vittima dell’elemento altro e mostruoso della narrazione. Lo sguardo del regista si serve dei topoi del racconto fantascientifico cinematografico, replicandoli con l’obiettivo di creare un nuovo insieme significante che riesca a raggiungere la potenza visiva e concettuale dell’originale. Fino a quando Life concentra la sua attenzione sulle modalità di interazione tra alieno cresciuto dall’uomo (a cui, tuttavia, si ribella) e chiusura ineluttabile dello spazio portato in scena, il film funziona perché riesce a far presa su un sentimento di angoscia e preoccupazione difficile da fugare. L’alieno, con il suo sguardo ubiquo, è sempre consapevole della posizione e delle mosse preventive che verranno attuate dall’equipaggio della stazione spaziale, i cui occhi inevitabilmente analogici si dimostreranno carenti perché costruiti su un supporto umano.
Il film di Daniel Espinosa è dotato di una notevole carica perturbante e trapianta gli elementi classici del monster-movie in un mondo da videogame che può fare a meno dell’essere umano e del suo sguardo. O che, quanto meno, riduce tutto alla sua prospettiva, come dimostra il cliffhanger finale che potrebbe gettare le basi per un altro universo condiviso. In questo scontro tra umano/orizzonte classico e alieni/digitale nell’ambito delle ultime tendenze del blockbuster americano, il primo termine, al momento, sembra avere la peggio. Senza che, tuttavia, spettacolarità e livello di interesse complessivo ne risentano più di tanto.