Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate
Peter Jackson e il sex appeal dell'Inorganico
"Lo stile postmoderno raccoglie, concentra e promuove figure che per la maggior parte sono note al cinema da decenni (per esempio il carrello in avanti vertiginoso). Semplicemente, le sistematizza, le ammassa o le "remixa" in un modo che gli è proprio [...] Il cinema post-moderno è fun [...] ci fa risuonare e vibrare [...] Si rivolge alla nostra pancia, bombardandoci di immagini-sensazione pirotecniche, e al contempo alla nostra testa, bombardandoci di allusioni, di riferimenti e di strizzatine d’occhio (immagini di immagini che siamo lusingati di riconoscere [...] L’evoluzione tecnologica del cinema si realizza nella direzione dell’immersione dell’immagine, e quella dello spettatore nella direzione dell’esplorazione, se non dell’abitazione".
Così scriveva lo studioso Laurent Jullier nel suo ormai celebre saggio Il cinema post-moderno, anche se queste righe potrebbero benissimo essere frammenti rubati ad un’attenta analisi della direzione stilistica presa da Peter Jackson per i suoi tre film dedicati a Lo Hobbit, e in particolare per quest’ultimo La battaglia delle cinque armate. Il saggio di Jullier, tuttavia, è del 1997.
Che il cinema post-moderno secondo Jullier cominci addirittura con Star Wars è cosa nota, sta di fatto che in quest’ultima fatica di Jackson si possono ritrovare tutte le caratteristiche sopra elencate ma potenziate all’inverosimile. La differenza sostanziale tra quest’ultima trilogia tratta dal romanzo di Tolkien e quella dedicata a Il Signore degli Anelli sta nel progressivo allontanamento dall’opposizione di post-classico e post-moderno, che trovava massima espressione ne Le due Torri, in favore di una totale adesione alle forme più estreme della post-modernità.
Pur muovendosi in contesti industriali dove gli enormi capitali mossi dalle major impongono compromessi tra la tendenza all’estremo del regista neozelandese e determinate modalità di messa in scena più rassicuranti per il grande pubblico, quello di Jackson è un cinema dove la tecnologia si fa interprete di una destabilizzazione della visione, di un superamento del corpo, di uno scioglimento dell’identità del soggetto che pur essendo ben piantato nella contemporaneità affonda le sue radici dentro linee di tendenza tra le più ancestrali dell’arte cinematografica. Il digitale, inteso in questo caso come dispositivo profondamente referenziale la cui prerogativa è proprio l’immersività, lo sprofondamento del corpo nel mondo immaginario, è dunque forse il punto di arrivo di un processo di liberazione dello sguardo che si fa scrittura.
Dopo l’incredibile protagonismo del drago Smaug, impersonato in performance capture da Benedict Cumberbatch nel secondo capitolo della trilogia, in questo La battaglia delle cinque armate la fusione di corpi digitali e live action nel tessuto filmico è ormai giunta ad un livello prossimo alla perfezione. A ciò si aggiunge un utilizzo sempre più espressionista della virtual camera, che sebbene sembri un sistema apparentemente sganciato da qualunque dispositivo fisico anch’essa conserva al contrario una propria specifica corporeità e, al contempo, il superamento di ogni limite fisico.
Il titolo del film non disattende alcuna promessa: se è una battaglia che desiderate, una battaglia avrete. Ecco dunque che per tentare di battere i record del proprio stesso cinema (ovviamente ci riferiamo - parlando di battaglie - alla summa dell’epica jacksoniana tradotta nell’assedio de Le due Torri) il regista un tempo noto solo per Bad Taste e Splatters sposta deliberatamente i pesi drammaturgici e narrativi di questo suo ultimo lavoro in funzione dell’azione totale: più del 90 % del film è infatti costituito da un’interminabile scontro tra più fazioni.
Sebbene chi scrive continui a preferire l’equilibrato scambio di registri emotivi che conferiva maggior respiro e lirismo alla prima trilogia, è inutile negare che l’impatto visivo e spettacolare dell’ultimo film sia qualcosa di eccezionale. Se da una parte si avverte meno l’ingerenza del "fun" citato da Jullier (più presente nella prima parte, quasi videoludica, del precedente La desolazione di Smaug) è innegabile constatare quanto non sia per nulla facile orchestrare una battaglia di tale durata senza dare nemmeno un attimo di tempo allo spettatore per provare solo a pensare di annoiarsi. E anche se sicuramente i detrattori non mancheranno una cosa è certa: Jackson continua a sperimentare con le forme filmiche con l’intento di costruire mondi e modi in cui mostrarli possibili solo al cinema, solo grazie ad un grande (grandissimo) schermo e all’occorrenza con l’ausilio degli occhiali 3D. Il cinema di Jackson non può essere ri-tradotto letterariamente, non funziona così bene in home video su piccolo schermo, non lambisce il linguaggio dei pur ottimi serial contemporanei ma si muove ostinatamente sul confine di quell’eccesso audiovisivo (pensiamo al suo capolavoro King Kong) sempre più raro (e prezioso) nel cinema statunitense.
Nonostante non sia un lavoro dotato di particolare profondità La battaglia delle cinque armate riesce forse a sorprendere proprio per la sua sostanziale mancanza d’equilibrio: è infatti un film più sfilacciato e fuori controllo di quanto potrebbe sembrare ad un primo sguardo, la cui potenza centripeta (che esalta il cuore di generi come il melodramma, il western e il bellico) pone la spettacolarità come forma propria della narrazione cinematografica, in quella equivalenza di meraviglia e retorica, stupore e piacere pre-simbolico.
La battaglia delle cinque armate è, per dirla con Umberto Eco, un "intrico di Archetipi Eterni", una storia alimentata da grandi valori in cui però – e sarebbe bene farci attenzione quando qualche sprovveduto accomuna ancora oggi l’immaginario tolkieniano a quello di estrema destra – non vince realmente nessuno e in cui nessuna "razza" sembra essere effettivamente degna di regnare sulle altre. A farla da padrone sono infatti meschinità, cupidigia, inganno, tradimento, ira ed egoismo, e quel poco d’amore che resta sembra comunque essere beffardamente posto in rappresentanza della famosa eccezione che conferma la regola.
Raccontare con così tanta maestosità e senso dello spettacolo le miserie tristemente senza tempo degli uomini (e, si, anche degli elfi, degli orchi e degli hobbit) non è cosa da poco.