Quando si scrive di un film come Lo sguardo di Satana – Carrie, remake del cult di Brian De Palma, è molto difficile non entrare in quel solito girotondo di ovvietà sulla logica dell’operazione, sul ruolo e sul senso del remake all’interno dell’industria cinematografica americana (e non solo). E’ difficile perché ci si ritrova davanti a un’operazione che rivela, fin da subito, tutta la sua evidente, palesissima inutilità. Ma non, come si potrebbe pensare, per una logica aprioristica che condanna il remake in quanto tale, ma per una devastante carenza d’immaginario, per una messa in scena dozzinale che rivela immediatamente l’incapacità di saper aggiornare il classico firmato Stephen King. O forse nemmeno aggiornare è il verbo giusto, quanto piuttosto riscrivere, adattarlo al nostro tempo, illuminare il testo filmico attraverso prospettive inedite e attuali: dovrebbe essere questo il senso dei remake. E d’altronde quale film meglio di Carrie si sarebbe potuto prestare a un’operazione del genere? Dietro la patina dell’horror la pellicola originale ha sempre rappresentato il primo, shockante tremore che si prova nello scoprire la propria sessualità, ha trasformato l’adolescenza in un racconto dell’orrore in cui l’unico, autentico mostro era la crudeltà gratuita del gruppo (molto più spaventosa di qualsiasi serial killer che sarebbe venuto dopo). Un horror intimista in grado di segnare un intero immaginario, quello dei primi, indomabili turbamenti fisici: chi non ricorda ancora oggi l’incredibile sequenza della doccia in ralenti? L’espressione di Sissy Spacek, dilaniata dal terrore alla vista del primo sangue mestruale, è una di quelle immagini iconiche che ritornano continuamente alla mente.
Basta vedere la soluzione-traduzione della stessa sequenza nel film di Kimberly Peirce per rendersi conto che c’è un sostanziale abisso teorico che distingue i due film. La sequenza di De Palma è straordinariamente costruita secondo i dettami hitchcockiani dell’attesa e dell’evento: atmosfera distesa e rilassata, dettagli soffusi, primissimi, dolcissimi piani. Carrie si accarezza il seno con l’innocenza di una bambina, strofina la saponetta sul suo corpo finché non fuoriesce del sangue dalle zone più intime. Ecco allora che la musica scompare e la ragazza, sconvolta, inizia a invocare aiuto, muovendo il suo corpo nudo come una forsennata, immediatamente respinta e derisa dalla comunità. Nel film della Peirce tutto avviene senza rispettare alcuna attesa, giocando sul già visto, sovvertendo i tempi, in un’atmosfera dimentica dell’erotismo innocente di quella nuova donna. Ogni immagine risuona come se ci si trovasse davanti a una cover poco ispirata, che vorrebbe tributare ma finisce per infastidire, che vorrebbe rievocare ma finisce per oltraggiare.
Un aggiornamento in chiave contemporanea di Carrie era un’idea pericolosa ma stimolante perché permetteva di inserire il discorso sulla gratuità del male all’interno delle nuove logiche virtuali e comunicazionali. Il bullismo sarebbe potuto diventare cyberbullismo, l’umiliazione avrebbe potuto circolare in rete creando degli effetti devastanti per la sfortunata protagonista. E tutto questo in parte c’è, ma lasciato lì senza possibilità di ribollire: esiste come bozza, come momento di passaggio, non è mai il fulcro ma la nota marginale, il commento a piè di pagina. Certo, si potrebbe dire, il video-umiliazione di Carrie viene mostrato nel climax terribile del film, mentre la ragazza è imbrattata di sangue di porco ma, ancora, si tratta di un espediente orpelloso che funge da corredo, da decorazione sterile, da plus di dolore poco circostanziato. Ne deriva che il film di De Palma risulti molto più attuale dell’operazione di Peirce, che è invece un imbalsamato cinema di fantasmi e déjà vu, fuori-tempo massimo nel suo raccontare improbabili innocenze perdute: si tratta tristemente di un cinema senza idee, anche fosse solo un’intuizione o un singolo bagliore. Sorge spontaneo dunque chiedersi quale sia il senso di esistere di questo remake. Probabilmente una vera riscrittura di Carrie avrebbe dovuto tentare di seguire meno il film originale per andare a raccontarci un nuovo tipo di umiliazione. E invece ci si preoccupa così tanto di seguire il proprio predecessore da annoiare un mondo: non esiste sorpresa e, nel versante opposto, non c’è nemmeno un attimo di suspense. Viene a configurarsi un oggetto filmico che diviene immediatamente parodia del film di De Palma, il suo b-side pedante e svuotato di qualsiasi riflessione cinematografica. Il ralenti depalmiano, nebuloso strumento di scultura del tempo, diviene qui abuso gratuito e fuorviante, per non parlare della concezione dell’horror che emerge. Si fa leva sui poteri paranormali di Carrie che sembra un personaggio uscito direttamente dagli X-Men con il volto di Hip Girl (come se il film raccontasse la genesi del cattivo di turno di un nuovo cinecomic). Sissy Spacek nel film di De Palma interpretava una ragazza problematica, tutta contrita in se stessa, perfino convulsa, in equilibrio precario tra purezza e libido, tra continenza e desiderio. L’inquietudine nasceva dal suo esser posseduta da una forza oscura, mentre nella nuova versione la protagonista può gestire i suoi poteri, pare quasi consapevole di tutto ciò che fa. Negli anni ’70 Carrie era algida, bambina ma già donna, perfino in quel momento estatico in cui, ricoperta di sangue di porco, avanzava operando la sua vendetta. Oggi Chloë Moretz si rivela completamente inadatta al ruolo, svuotandolo di tutto lo spessore esistenziale e della sua forza erotica. Nessuna estasi, solo rabbia e risentimento.
Non stupisce dunque che in epoca di occhi famelici che guardano e fagocitano tutto, Carrie diventi il mostro telecinetico che semina terrore creando effetti speciali da telefilm per teen-agers. E tra comprimari tanto ridicoli quanto inverosimili (il ragazzo che porta alla festa la protagonista, che sembra uscito direttamente da un episodio di Settimo cielo) eravamo tutti curiosi di vedere la prova della semprerossa Julianne Moore nel ruolo di Margaret White, la terribile madre, fervente integralista cristiana (per usare un eufemismo). E, dispiace dirlo, ma il paragone con Piper Laurie è devastante. Se le intenzioni erano quelle di approfondire meglio il rapporto madre-figlia quello che ne esce fuori è un pastrocchio totale dove la Moore esibisce il suo volto più austero ma non inquieta, non turba, non lascia assolutamente nulla, ma anzi, è talmente fuori parte da regalare qualche sana risata. Ma la colpa non è dell’attrice ma di una scelta di casting sbagliata o, ancora, di un’operazione assurda fin dalle prime battute.
Con buona pace di Brian De Palma. Con buona pace di Stephen King.