Presentato al Festival di Torino nel 2012, L’ultimo pastore è un documentario ricco di passaggi lirici e immerso in un’atmosfera a tratti fiabesca, che descrive con uno sguardo partecipe e sensibile un mondo pieno di fascino che rischia forse di scomparire, al pari di molte realtà rurali minacciate da un sistema economico miope e rigido che troppo spesso si rifiuta di tutelarle e preservarle. Siamo in Lombardia, dove Renato Zucchelli racconta la sua vita di pastore nomade – uno dei pochi che ancora pratica la transumanza – circondato da meravigliosi paesaggi di picchi montuosi e verdi pendii dove il suo gregge pascola con serena placidità sotto un cielo alto e chiaro. Renato ama il suo mondo, l’aria cristallina e il silenzio dolce delle montagne, lontano dal caos di Milano che però deve affrontare periodicamente per vendere il suo bestiame; a valle, alle porte della città, la moglie lo sostiene e lo aiuta nel suo lavoro, e i suoi quattro figli crescono imparando a conoscere e ad amare gli animali (mucche, asini e pony insieme alle tante pecore del gregge). Il film di Bonfanti non si limita però alla descrizione di questo universo bucolico, ma racconta e mette in scena, potremmo dire, il sogno personale del pastore protagonista del documentario: portare il suo gregge al centro di Milano, per mostrarlo ai tanti bambini della città per i quali oramai i pastori sono figure ideali e un po’ vaghe, che appartengono più al mondo dei cartoni animati (una bambina cita Heidi) che a quello della realtà e della quotidianità.
La regia di Bonfanti sa esaltare la bellezza eterna della natura e fare di questa piccola e singolare vicenda una metafora di uno stato di cose più ampio e complesso. Come vuole il documentario, i protagonisti si raccontano in maniera libera e spontanea, il più possibile autentica. Tuttavia il pastore è al contempo persona e personaggio, poiché senza recitare incarna tutto sommato un’idea, un modo di pensare e di vivere, qualcosa cioè che prescinde in un certo senso dalla sua individualità.
Discreto ma sottile, il regista indugia tanto sulla fisicità del protagonista (le spalle larghe e massicce, gli occhi chiari e aperti) quanto sui panorami (gli scenari maestosi della natura e poi la desolazione della periferia dove campi malandati e trascurati cedono il passo alle fredde geometrie della metropoli) e ancora, sugli animali, veri protagonisti del film. Vedremo quindi il gregge, accompagnato a tratti da asini e caprette, attraversare un paesaggio via via sempre meno “naturale” e sempre più artificiale, che progressivamente perde – impossibile non notarlo – il suo equilibrio e la sua bellezza; fino a trovare però un nuovo equilibrio e una nuova dimensione estetica finalmente compiuta al centro della città.
Ed ecco che Piazza del Duomo viene invasa all’improvviso da centinaia di pecore, per la felicità dei bambini che qui le aspettavano curiosi ed entusiasti: la conclusione, con la sua portata quasi surreale e in un certo senso stupefacente, vale da sola tutto il film, che pur essendo a tutti gli effetti un documentario assomiglia, più che a un’inchiesta, ad una poesia giocosa, un po’ malinconica e a suo modo commovente.