“Forse la science-fiction dell’era cibernetica e iperreale non può che consumarsi nella resurrezione artificiale di mondi storici, cercare di ricostruire in vitro, fin nei minimi dettagli, le peripezie di un mondo anteriore, gli avvenimenti, i personaggi, le ideologie passate, svuotate del loro senso, del loro processo originale, ma allucinanti di verità retrospettiva”
Jean Baudrillard, Tre ordini di simulacri
Dopo il primo capitolo la citazione di Jean Baudrillard funge da polo necessario per tutta la cronomappatura a venire. Con un solo indispensabile preavviso: non si parla più di science-fiction, non avrebbe alcun senso, a meno che non si accetti il vecchio luogo comune – non per questo falso – per cui la fantascienza sarebbe sotto gli occhi di tutti. Allora, e solo allora, si potrebbe incominciare a lavorare in direzione di quella che mi pare la linea progressiva dell’opera di David Cronenberg: il ritorno artificiale del mito – o forse, più che di ritorno, parlerei d’innesto o di una sorta di regressione anestetica. Ma come al solito questo è uno degli ultimi punti della mappa: i pezzi si confondono, ritorniamo al presente.
5. Quale presente?
Frasi come “Sta finendo tutto” o “Non c’è più tempo” sono i moniti, le chiavi di lettura imprescindibili, gli shock epistemologici di Maps to the Stars. La prima domanda che urge spontanea è: di quale tempo stiamo parlando? Qual è il tempo del film? Durante la seconda visione l’impressione era che qualcosa di molto importante fosse venuto meno. Qualcosa di assolutamente immanente, la cui assenza ha creato una vertigo, un disorientamento che non può fare a meno di coglierci durante la visione.
Mettendo a posto i pezzi della mia cronomappatura, osservavo le coordinate in via di definizione. Mi rendevo conto che eventi, personaggi,svolte (se di svolte si può parlare) venivano definiti sempre e solo in relazione al loro passato. Non esisteva più nulla di libero o autosufficiente, ma da ogni appunto partiva una serie infinita di frecce che lo collegavano ad un qualche ghost. All’improvviso mi è sembrato che quella cosa lì di cui tanto sentivo l’assenza non fosse altro che il presente. Tutto in Maps to the Stars vive nell’ombra del passato, introiettato in retaggi mitici che richiamano dimensioni latenti, fino a trovare il loro retrofondo illuminato in una configurazione di stampo antico. Il richiamo più forte si è rivelato quello della tragedia greca e della costruzione canonica della dramatis personae: la stessa trama è un’autentica tragedia famigliare, con i conflitti più estremi esposti in bella mostra. Mi si perdoni il gioco di parole, ma non sarebbe un eufemismo dire che l’intero film usi un linguaggio eufemistico.
Nel precedente capitolo si sottolineava come Maps to the Stars fosse eminentemente un’opera sui fantasmi, ma non è d’altronde il cinema tutto di Cronenberg ad andare in quella direzione? Se abbiamo identificato in A Dangerous Method il punto nodale, l’alfa del nuovo cinema cronenberghiano, allora cos’è il fantasma se non il ritorno del rimosso, la dimensione inconscia che si fa carne, proiettandosi come doppio che tormenta la vita dei protagonisti? Tutti i personaggi di Maps to the Stars sono dei sopravvissuti, custodi di segreti che hanno irrimediabilmente corroso la loro vita. L’irruzione del rimosso, nel momento stesso in cui si fa evento catastrofico, si pone anche come situazione necessaria e, soprattutto, fondativa. Se il presente appare come il grado zero della narrazione, il (non)tempo in cui non avviene nulla, cos’è allora il passato? Probabilmente è la genesi del presente, non il suo residuo mnemonico ma la sua stessa ragione d’esistere. Nel corso del film si ha sempre più l’impressione che siano i fantasmi a costituire, a istruire, a stabilire il vigente: essi appaiono nella loro dimensione più concreta e tangibile, sono più veri del vero, sembrano fatti di carne e ossa proprio come noi. Ma possiamo spingerci ancora oltre: questi spettri carnali arrivano a formare, a produrre l’identità di ogni singolo personaggio. Ogni attore – perché in fondo di questo stiamo parlando – si rivela inimmaginabile privato del suo passato. E’ come se i fantasmi caratterizzassero la personalità dei personaggi, non causassero il loro carattere, ma arrivassero addirittura a fondarlo. La mente si rivela allora luogo misterioso, segreto inconciliabile e funesto, abitato da un’alterità ingestibile e impossibile da controllare. Quest’alterità esplode al momento della sua apparizione, manovra i personaggi come fossero pedine di un gioco prestabilito, burattini che possono conoscere un unico comportamento: quello funzionale dell’illibertà. Vedremo più avanti il paradosso con la poesia-mantra di Paul Éluard, che si chiama, per l’appunto, Libertà. Per ora mi limiterò a scrivere che nessuno dei personaggi di Maps to the Stars è libero, perché i suoi demoni non vivono più sotto la pelle, ma formano e trasfigurano la realtà di ogni giorno, tenendola incatenata all’interno di un mondo di simulacri e retaggi infiniti. Ogni cosa è mera apparenza riflessa sulle superfici glamour di Hollywood: ipostasi del nulla, shining elusivo come mai, il problema è la totale (con)fusione tra reale e irreale, persona e spettro, presente e passato, e così via.
Pensiamo al personaggio di Havana Segrand: pura, volgarissima nevrosi della contingenza, meteora ricca e famelica di potere, soldi e sesso. Il fantasma di sua madre, morta anni prima in un incendio, non solo condiziona la sua vita, ma si pone come doppio irraggiungibile, miraggio di un’identità e di una conciliazione che Havana non riuscirà mai a ottenere. Il suo sogno è quello d’interpretare il ruolo che fu tanti anni prima della madre. Rifare, riesplorare, ricarnalizzare: una recita che è già vecchia, un film che è già stato fatto. La logica del remake estende la riflessione sul fantasma all’intero meccanismo produttivo hollywoodiano; un’industria incapace di slegarsi dal suo passato, di ricostituirsi ex novo, ossessionata com’è dalle donne che vissero due volte e dalla variante implicita nella serie. Ancora una volta è il passato che istituisce il presente, in una sorta di eterno ritorno degli stessi codici, delle stesse pantomime, delle stesse ipotesi narrative.
Si tratta di un meccanismo non nuovo nel cinema di Cronenberg: se abbiamo rintracciato nella perdita progressiva di humanitas il fulcro del suo cinema, qui bisogna fare un passo in avanti. In Cosmopolis il fattore umano – o meglio, l’errore umano – costituiva la variante inattesa, la parziale rivincita, il lume in fondo al tunnel. In un mondo ipercodificato la prostata asimmetrica era il non-calcolabile, il non-dato, perché il virus che intaccava la perfezione meccanica, autonoma del mondo – di un mondo che non aveva più bisogno dell’uomo – era l’uomo stesso. Ma qui non c’è errore: ci si ritrova fin dall’inizio nella dimensione residuale del mito, in quel regno di zone morte dove l’inumanità ha completamente preso il sopravvento. All’interno di un ambiente incancrenito, dove perfino i ragazzini sono già adulti e non esiste possibilità d’innocenza, i personaggi hanno perso il loro specifico, sono regrediti a mere funzioni. Se Cosmopolis finiva in attesa dello sparo, nel momento prima della detonazione, in Maps to the Stars lo sparo c’è già stato: ciò che è esplosa è la limousine.
Ci viene incontro, ancora una volta, Jean Baudrillard: “Quando un sistema raggiunge i suoi limiti e si satura, si produce una reversione: accade un’altra cosa, anche nell’immaginario”. Ebbene, Maps to the Stars è il film decaduto di Cronenberg, privo di sovrastrutture narrative o di psicologismi più o meno raffinati. Oggi tutto questo suonerebbe falso. Il mondo, o meglio, le relazioni sociali sono tornate alla loro radice: la realtà sopravvissuta alla rivoluzione virtuale si rivela fatta della stessa materia del mito. Ed ecco che s’incomincia a delineare la dimensione di quest’ultimo Cronenberg: il non-presente dei personaggi è l’eterno presente dell’estensione mitica.
6. Ritorno al mito.
“La parodia significa impiego delle forme nell’epoca della loro impossibilità”
Theodor Adorno, Tentativo di capire Finale di partita
Dimensioni incestuose, fedi nuziali, tradimenti e sacrifici, spettri e colpe dei padri che ricadono inevitabilmente sui figli: la mitologia è il punto d’arrivo – o forse la condizione di partenza – dell’intera carriera di David Cronenberg. D’altronde il termine mitologico viene ripetuto più volte all’interno del film, e molto spesso in tono dispregiativo o almeno ironico. Quando il personaggio di Agatha racconta all’autista di limousine la trama del soggetto cui vorrebbe lavorare gli dice “Ci buttiamo in mezzo un po’ di roba mitologica” , in chiaro riferimento all’incesto. Ne parlerà in modo simile al fratello, quando lo incontrerà dopo anni di lontananza. Trovo incredibile il modo con cui Cronenberg introietta il mito e lavora, contemporaneamente, sulla fruizione dello spettatore. E’ chiaro che il film che vorrebbe scrivere Agatha sia la storia dei suoi genitori: due fratelli che finirono per sposarsi e occultarono al mondo (che è sempre e solo pubblico) il loro segreto. E’ interessante notare come una delle reazioni più diffuse in seguito alla visione del film sia uno sberleffo nei confronti del suo presunto vecchiume, del suo essere fuori tempo massimo, del suo giocare ancora con gli incesti e con situazioni narrative ormai sature. Ma è solo dalla saturazione, è solo dall’esplosione che si può trovare una nuova via. Non per niente il fuoco è il simbolo visivo che pare incendiare il film (come del resto la luce bianchissima che irradia, brucia ogni esterno).
Legami famigliari così complessi se da una parte rimandano al mito dall’altra ricordano gli intrecci farraginosi tipici della soap-opera. Ma è una soap, questa, che oltre a soffrire di colpe esiziali, si rivela crudelmente decentrata e fuor di sesto. I personaggi sono già scritti, la loro psicologia viene progressivamente annullata, perché sono impossibilitati a dominarsi e, di conseguenza, vengono a loro volta dominati dai propri demoni esposti. L’impiego della forma mitologica all’interno della narrazione trasforma immediatamente il film in parodia. Questo strano oggetto filmico pare guardarci, consapevole che la mitologia è di casa all’interno di un mondo invertito. In una tragicommedia impiastrata di spettri e sangue è lecito disquisire del commercio di merda e, un minuto dopo, citare Bertolucci. Tutte le cose all’interno di Maps to the Stars sembrano urlare a squarciagola, con il nervosismo proprio delle star in declino: sono un pretesto! La natura pretestuosa di qualsiasi incastro narrativo va di pari passo con l’effetto-ridicolo scatenato dalle apparizioni dei fantasmi e con la sensazione di una realtà configurata in maniera assolutamente, radicalmente artificiale. Come interpretare altrimenti il fuoco visibilmente post-prodotto, realizzato in pessima computer grafica, che uccide (uccide?) la signora Weiss? Ogni cosa dichiara la sua natura fittizia, perché la realtà non può che configurarsi come parodia di se stessa (così come un horror, oggi, non può che delinearsi come suo esorcismo: in assenza di effetto-sorpresa è la prevedibilità a rassicurarci, a farci amare quello spavento che in realtà non è più tale). In altre parole, se il film di Cronenberg crea un’inevitabile corto-circuito per lo spettatore è perché il meccanismo finzionale svela se stesso riportando in luce la sua radice mitica.
7. Parole che (non) dicono.
“Gli atteggiamenti, i gesti e i movimenti del corpo umano sono ridicoli nell’esatta misura in cui tale corpo ci fa pensare a un semplice meccanismo”
Henri Bergson, Il riso
Ogni personaggio è l’incarnazione di un’idea-funzione narrativa. A pensarci questo è un altro punto in comune con The Canyons di Paul Schrader, in cui il modello – ovvero, quel che resta del personaggio – era ridotto al minimo di esistenza. Questo minimo di esistenza diventava, immediatamente, un’esistenza impensabile senza una rete. The Canyons era un film di fantasmi nel senso che disintegrava le possibilità narrative mostrandole, per l’appunto, come meramente narrative. Era un film che raccontava la morte del cinema perché ormai le sale erano vecchi edifici abbandonati e desertici, popolati dai fantasmi di narrazioni ormai finite. Ma Cronenberg non vuole inscenare la fine del cinema, a lui interessa un tramonto che c’è già stato: quello dell’uomo. Maps to the Stars non parla (solo) di cinema sebbene i fantasmi che mette in scena ne parlino in continuazione, arrivando perfino a citare Il sesto senso con esiti esorcistici per una scena che rifiuta di essere clou. Tutto nel film di Cronenberg viene spiegato, detto, ridetto, e poi ancora pronunciato. Siamo nell’era di un’iper-nominabilità che vorrebbe configurare l’intero esistente, afferrarlo, bloccarlo, concettualizzarlo, ma c’è qualcosa che sfugge a qualsiasi ipotesi di controllo: il passato. Quella che è in gioco è la nostra stessa identità. La parola si rivela dunque contenitore vuoto, presenza di un’assenza, residuo del mondo, mancia quotidiana: il fatto è che le parole non dicono nulla. Ci sono, ma hanno la qualità del resto vano, sono ridotte a puri protocolli della dimensione sociale. Non è la parola ma è il gesto a interessare il mito.
Fatte queste (doverose) premesse ecco allora che potremmo finalmente sviluppare i temi fondamentali del film: colpa, sacrificio e libertà, in attesa di imperi della mente lynchiani che possano finalmente riemergere dall’oscurità.
(continua…)