''Stereo'' e ''Crimes of the Future''
Uno sguardo in parallelo ai primi due film di David Cronenberg, celle incubatrici di future contaminazioni
“Io ho parlato frequentemente di parola
e di immagine come virus o come sostituti di virus,
e questo non è un allegorismo”
William Burroughs
Se come Christopher Nolan partissimo dall’idea che il virus più contagioso di tutti sia un’idea, quale concetto astratto risulterebbe più pandemico del linguaggio? E tra questi qual è il più volatile e poroso e ancestrale se non l’immagine? Il cinema è quindi sede e luogo d’azione di contaminazione ed evoluzione, e in questa dimensione biologica non può che stagliarsi l’operato di David Cronenberg, che di tale contagio ha fatto il carattere primo del proprio cinema, creato e vissuto come trasmissione di caratteri primigeni e mutanti. Trasmissione che pur variando nelle forme mantiene constanti i propri campi d’indagine, come abbiamo ribadito in A Dangerous Method. A questo punto ci è sembrato concorde e necessario rispetto a questa biologica dimensione virale andare a ripescare i primi luoghi in cui tali contaminazioni sono apparse, Stereo e Crimes of the Future, che altro non sono se non sedi d’incubazione.
Giunto al cinema in relativo ritardo – passa da scienze a letteratura all’Università di Toronto, città in cui significativamente insegna Marshall McLuhan e scriverà William Gibson – Cronenberg si relaziona per la prima volta con l’audiovisivo attraverso la realizzazione di due corti, Transfer e From the Drain, entrambi in 16 millimetri rispettivamente del 1966 e ’67. L’esperienza è breve ma sufficiente ad indicare al futuro regista che la sua strada non sono i racconti fantascientifici scritti emulando i propri modelli, a partire da Burroughs, bensì il cinema. Il 16 millimetri e la forma del cortometraggio non bastano quindi più, si deve passare al 32 e ad almeno un’ora di girato.
Realizzati ad un anno di distanza fra loro (1969-70), Stereo e Crimes of the Future sono stati giustamente definiti “virtualmente interscambiabili”, componenti di un dittico palesato da echi e riprese estetiche e formali, per una struttura dicotomica che tornerà spesso ad agire nei lavori futuri. A ben vedere la medesima dimensione dialettica si palesa anche al livello interno delle pellicole, ne costituisce uno dei citati nervi connettivi: il rapporto contradditorio tra il decor (e la sua messa in scena) e l’intensa corporeità che lo abita. Entrambi i film infatti testimoniano fin da subito il futuro interesse del regista canadese per il corpo e la carne, l’istinto e il sommerso, coppie che trovano la loro vettoriale manifestazione nella preponderante liberazione sessuale, il cui archetipico ritorno viene per l’appunto incastrato in una messa in scena fredda e glaciale, una serie di algide strutture che di quello stesso istinto naturale appaiono prepotenti negazioni. Una giustapposizione particolarmente interessante se consideriamo che in futuro una delle principali fonti di potere significante del cinema di Cronenberg sarà invece la sua costante “corporizzazione” dello spazio (si pensi all’autolavaggio di Crash, reso più carnale di un film porno).
Altro punto in comune tra le due pellicole è la figura del protagonista, Ronald Miodzik, che pur acquisendo nel secondo film nome e cognome precisi rimane simbolo e mera manifestazione fisica dello sguardo dell’osservatore. Girato in bianco e nero e privo di sonoro – l’unica traccia audio è costituita da una voce off che legge rapporti scientifici redatti in un linguaggio medico e psicologico forzatamente (parodicamente) complesso – Stereo si apre con l’arrivo del visitatore Miodzik all’Accademia Canadese per la Ricerca Erotica, nella quale sono in corso esperimenti sulla telepatia basati sulle teorie di “cibernetica sociale” del dottor Springfellow. L’obiettivo dello studio è l’esplorazione di stati di coscienza alternativi attraverso liberatorie sperimentazioni sessuali: navigare nelle nuove potenzialità messe a portata di mano da esperienze erotiche istintive e non gerarchizzate. Nel corso del film assistiamo così ad alcuni esperimenti mentali e fisici, sempre incentrati sui rapporti tra pensiero e linguaggio, soggetto e ambiente, che si svolgono in realtà senza alcun controllo in un paesaggio freddamente geometrico. Curioso come alcuni di essi (ad esempio un rapporto a tre tra i soggetti) appaiano come piccole finestre sul futuro, fotogrammi in fuga dai prossimi lavori del regista. La caratteristica comunque più interessante del film è il suo procedere su due binari non comunicanti (un segnale stereo si basa per definizione su diversi flussi informativi): infatti mentre la voce off prosegue a snocciolare cognizioni meta-scientifiche volutamente incomprensibili, limitandosi ad enunciare il fallimento dell’esperimento (con il suicidio di due soggetti) solo alla fine della visione, la componente visiva di Stereo ci mostra fin da subito l’incontrollabilità dell’operazione, evidenziata in particolare dall’immagine di quell’occhio di plastica che osserva lo spettatore da sottoterra, guizzo di animalità sommersa in costante turbamento.
Dagli stessi rapporti tra vita, sesso e morte parte Crimes of the Future, realizzato a colori ma sempre privo di audio, con una nuova voce off questa volta appartenente al protagonista, Adrian Tripod. Rispetto al precedente questo secondo lungometraggio presenta una struttura narrativa già più definita: il mondo è afflitto da una epidemia, scaturita dalle ricerche inerenti l’industria dei cosmetici, che ha sterminato quasi tutte le donne; Adrian Tripod è un ricercatore allievo di Antoine Rouge, il dermatologo pazzo accusato di essere l’autore della pandemia, che attraversa quel che è rimasto del mondo sulle tracce del suo vecchio maestro. Lo troverà nello spirito di una bambina undicenne, conservata come una preziosa reliquia da un gruppo di pedofili. Nonostante la maggior complessità diegetica, il film si presenta al pari del precedente come una mostra di ritratti umani, attraversati e osservati dal protagonista nel suo movimento erratico. Possiamo osservare sperimentazioni mediche sui malati; un uomo capace di riprodurre nuovi organi, appendici che gli vengono regolarmente estirpate per essere studiate; persone allo sbando che cercano di re-inventarsi in un mondo post-femminile, magari assorbendo dentro sé stesse parti di quell’identità ormai estinta.
Si è iniziato parlando in incubazione e dovrebbe ora apparire evidente come questi primi due lavori contengano in embrione molte delle dinamiche esplorate in futuro dal regista canadese. Prima di chiudere però c’è solo un’ultima considerazione da fare, e per farla partiamo da un bel colpo di scena critico: Stereo e Crimes of the Future non sono affatto due film autonomamente sufficienti. Pur forti di un’ambientazione fascinosa, diverse soluzioni disturbanti ed un linguaggio formale vicino all’avanguardia, i due primi lavori di Cronenberg trovano un loro vero perché solo in relazione al futuro, solo se visti come stadi introduttivi di una futura produttiva infezione. Come detto in diverse sedi critiche, sono lavori “tanto stimolanti quanto noiosi”, risultati di un’evidente autorialità non ancora calibratasi, soprattutto nella loro grave insufficienza narrativa.
Come ammesso dallo stesso regista, Stereo e Crimes of the Future sono stati sperimentazioni autoriali difficili, contorte, ma anche celle incubatrici di temi successivamente incastrati in splendide architetture narrative. E’ importante sottolineare questo punto, perché come dimostra la sua filmografia Cronenberg è un regista pienamente Autore, dotato di una precisa dimensione poetica che riesce però a manifestare e portare avanti in produzioni di genere dalla ampissime possibilità di fruizione. Un cinema non ostico e complicato ma allo stesso tempo straordinariamente gravido e complesso, nato da queste sperimentazioni degli esordi invece ancora non ben bilanciate.