The Canyons
Schrader riflette sul virtuale e sulla pelle dell'immagine realizzando un'opera fondamentale sulla morte del sentimento.
“La vita privata non esiste più” dice James Deen a Lindsay Lohan.
Figli di una realtà numerica, i corpi sempre connessi di The Canyons sono marionette fatte di pixel. Modelli ipotetici che non impugnano semplicemente uno smartphone ma che sono l’immagine stessa catturata da quello smartphone: come nuove, patinate figure di occhi invisibili e digitali.
“Viviamo in un mondo di icone sintetiche” afferma Paul Schrader mentre presenta il suo epitaffio al cinema, inteso come sala, luogo sacro e simbolico, come casa, museo e chiesa dell’immagine o, ancora, come retaggio novecentesco. Che le immagini abbiano sconfitto la realtà, che il virtuale sia quella bolla dove superare il cinema (ma soprattutto l’umano) è ormai cosa nota. C’erano già Noriko’s Dinner Table, Spring Breakers, Cosmopolis, Holy Motors e moltissimi altri titoli a ricordarcelo (e altri che sarebbero arrivati negli anni seguenti, come Maps To the Stars o Personal Shopper su tutti). C’era Baudrillard piuttosto che Jenkins e prima ancora McLuhan. Ma Schrader sembra interessato più alla pelle che alla carne, più alle superfici che ai suoi contenuti. L’epidermide digitale è sottoposta a continue, inevitabili mutazioni. Il demone non si trova più sotto la pelle, non agisce ipodermico, ma è nella stessa superficie: è una questione di linguaggio. Del resto il cinema, come il corpo, non è morto, anzi: si espande ipertrofico invadendo ciò che ci circonda.
Si potrebbe iniziare a scrivere di The Canyons partendo dal cortometraggio realizzato da Schrader in occasione del film collettivo Venezia 70 Future Reloaded. Qui il regista cammina per strada con diverse fotocamere attaccate al corpo, autentiche protesi di un cinema che si è ormai superato: come le macchine di Holy Motors che avvertono il pericolo dietro l’angolo, testimoni di un presente che le vuole sempre più piccole. L’obiettivo? La pura, incorporea invisibilità. Il virtuale del resto non ha bisogno di scheletri, ma solo di numeri (questa è la vittoria della pulsione scopica sulla relazione, dei meccanismi autopromozionali dei social network sui legami sociali).
Schrader continua a profilarsi come uno dei talenti più clamorosi, sottovalutati e teorici di quella generazione che dagli anni ’70 ha trasformato radicalmente l’immaginario americano. Lo stesso autore che faceva il grande cinema (Hardcore, American Gigolò, Lo spacciatore), scrivendolo (Taxi Driver, Toro scatenato), dirigendolo (Affliction come esempio malsano e bellissimo di regia pura), dedicandosi alla creazione di nuove forme e traiettorie deviate dell’occhio (il caso, rizomatico e trasversale, di Adam Resurrected), quello stesso autore torna a passo con i tempi, si fa giovane, provocatorio, estremamente concettuale. Decide di fare un film cercando i finanziamenti sulla rete, i contatti su facebook (Bret Easton Ellis, ingaggiato con un messaggio privato sul social network). Sempre attento alle mutazioni del linguaggio, alle connessioni virali di un mondo che ha smesso di conoscersi dal vivo, con The Canyons realizza un’opera sull’oggi escludendone qualsiasi prospettiva di dolore: il suo film, a tutti gli effetti, racconta la morte del desiderio, o meglio, le sue conseguenze. Le ossessioni schraderiane cedono così il passo ai rispettivi simulacri, i corpi sono esibiti, mostrati, reiterati, dimentichi di qualsiasi dimensione erotica o di qualsiasi desiderio, solo connessi ai loro avatar.
James Deen e Lindsay Lohan diventano così prototipi di attore 2.0, corpi glamour, dotati e sintetici, figli del videoclip e della pornografia, partecipi di quell’enorme e spettrale soap opera che è il mondo fatto immagine. Basta osservare il look del film, la composizione dell’inquadratura, la messa in luogo (e non più in scena) del corpo e dei suoi movimenti: l’immagine è piatta, priva di ogni tipo di profondità, di una durata e di un tempo altro, in cui le era ancora concesso di essere assorbita, digerita, addirittura fraintesa. I personaggi sono al centro della cornice, fotografati (e non immortalati) nella loro frontalità esibita. Gli sguardi hanno perso scintilla e luccicanza, al punto tale che non c’è pianto, non c’è sorriso, non c’è sentimento che sia autentico. L’implicito, l’ipotetico, l’indiretto sono sostituiti dai loro avatar esposti: dai cinema chiusi che aprono programmaticamente il film al ridicolo, geniale sguardo in macchina finale. Le sale cinematografiche sono vuote: nessuno spettatore, rimangono solo le immagini. Ma come si chiedeva Denis Lavant in Holy Motors: e se non ci fosse più nessuno a guardare? Ogni esistenza è rintracciata, ogni libertà vigilata: tutto è già pronto, disponibile per l’uso.
Schrader filma, in qualche modo, il suo Auto.Focus virtuale. Ma se Greg Kinnear e Willem Dafoe adescavano personalmente le prede sessuali e poi le riprendevano a loro insaputa, in The Canyons il luogo dell’incontro è il web stesso (questo è il vero delitto perfetto). Se Auto.Focus era la storia di uno sguardo analogico, che pure era già famelico e onnivoro, The Canyons racconta la trasformazione digitale dell’occhio, sottoposto a una riproducibilità tecnica impressionante. E se è vero che la nostra è l’era della convergenza, The Canyons è il film sulla solitudine estrema di chi ha smesso di interrogarsi ma ha accettato il mondo.
In questo modo il noir multimediale diventa parodia di ciò che è e che c’è stato, fino ad annullarsi accettando il ridicolo come condizione quintessenziale dello sguardo contemporaneo.