Again. Di nuovo. Ma di nuovo cosa, esattamente? Perché, in questa opera del tedesco Mario Pfeifer (Menzione Speciale della Giuria all’Asolo Art Film Festival 2019), a dispetto dell’assertività implacabile del titolo, o della stessa posizione dell’autore, del suo sguardo, che è stringente, “tracciabile”, a dispetto perfino di una certa inevitabile programmaticità, i cortocircuiti di senso, di significato si rivelano, qui, problematici. E stranamente, ma in fondo neanche tanto, a visione conclusa capita che il pensiero corra per un po’ da tutt’altra parte, magari nella Finlandia del bellissimo L’altro volto della speranza di Aki Kaurismäki (2017): qui, il siriano Khaled dice al suo amico iracheno: “Sembri felice e soddisfatto”, e la risposta che riceve è questa: “Fingo. Quelli malinconici sono i primi che mandano via. Tutti i malinconici vengono respinti”. Ecco, è difficile trovare altrove una scena, un dialogo, un momento che sappia comprendere in maniera così concisa e al contempo meravigliosa – e meravigliosamente politica – una delle questioni centrali del nostro tempo. Che, sganciandoci dalla poesia lunare di Kaurismäki e tornando alla feroce e ignorante ottusità di questo presente permanente, è il tempo – nostro, italiano, europeo, occidentale – della criminalizzazione di poveri e disperati, di chi li salva, di chi riesce poi ad approdare, di chi invece in mare muore. Non basta non accogliere più il dissimile, ma è la sua stessa esistenza a essere tragicamente e assurdamente opzionale. Again, allora? Forse sì, forse no. Come scrive lo storico George Fredrickson, «il termine razzismo è entrato per la prima volta nell’uso comune negli anni trenta del Novecento quando si avvertì l’esigenza di una nuova locuzione per descrivere le teorie sulle quali i nazisti basavano la loro persecuzione contro gli ebrei. Come avviene per molti termini usati dagli storici, però, il fenomeno esisteva prima che la parola che adoperiamo per descriverlo venisse inventata».
Again? Un fatto vero. Luglio 2016: in Sassonia, nella Germania orientale, in un supermercato, alcuni uomini – mentre qualcuno col suo cellulare riprende tutto e diffonderà poi in rete – bloccano e aggrediscono Schabas Saleh Al-Aziz, rifugiato iracheno, epilettico. Lo porteranno via e lo legheranno a un albero; tempo dopo, tra molte ombre e inquietanti interrogativi, verrà ritrovato il cadavere del giovane.
Pfeifer, classe 1981, rimette in scena, rifà, riformula e geometrizza gli eventi e compenetra le implicazioni, colloca una voice over, dirige attori e non attori, palesa il meccanismo e le strutture di messa in forma, pone in comunicazione il reale e la finzione, il visuale e il percettivo, le immagini autentiche e il set, i tempi e i luoghi (non esistono confini, e il luogo è un supermercato, un parcheggio, un tribunale…), congiunge le forme e le figure dello show TV, del reality, con l’installazione. Il caso giudiziario, le interviste dei telegiornali, o le testimonianze, il punto di vista e il vissuto delle persone – nate in Germania o giunte lì da lontano anni prima – coinvolte nel film: tutto questo, in Again, si muove tra asciuttezza ed effetto, tra linguaggio e didascalia, tra cronaca e riflessione più ad ampio spettro. È un antimanifesto, ma dice, afferma, organizza il suo pensiero (per quanto non sia infine chiaro se, per dire tutto, i suoi 39 minuti siano troppi oppure troppo pochi: ma anche in questo sta l’interesse che suscita il lavoro del regista di Dresda). Un’opera che non evoca spettri ma fa emergere punti critici, i semi della violenza e della paura, del coraggio e della responsabilità individuale e sociale. Un lavoro sul presente della Germania, ma anche su ciò che è stata, su ciò che potrebbe essere. Un lavoro sul nostro tempo. Una riflessione, un documento, uno sguardo che ci chiede chi siamo, ancora, oggi. Again? Evidentemente sì.