Partiamo dai fatti. Paul Thomas Anderson è uno dei più talentuosi registi americani della sua generazione. Che sia anche tra i migliori (e per noi lo è) può essere oggetto di dibattito e discussione, ma resta il semplice fatto che pochi tra i suoi colleghi sanno fare film come li fa lui. Dotato di uno straordinario intuito per la composizione dell’immagine e di una capacità tecnica raffinata e quanto mai scontata, Anderson è riuscito nel corso della sua breve carriera a cesellare e perfezionare la propria autorialità e di conseguenza il proprio cinema, che film dopo film è andato depauperandosi di gratuito citazionismo e plastica auto-referenzialità intessendo anzi legami sempre più profondi e terrigni con un classicismo cinematografico sul quale erigere costruzioni filmiche solide e profondamente personali. Abbandonate le soluzioni tecniche più evidenti ed esibite che hanno caratterizzato il suo cinema fino ad Ubriaco d’amore, Anderson con Il petroliere ha intrapreso con estremo coraggio e ambizione la ricerca di un cinema puramente autoriale ma non per questo solipsistico ed egocentrico, anzi profondamente connesso ai massimi sistemi antropologico-sociali del proprio paese. In questo senso The Master è la perfetta continuazione del suo precedente, una nuova esplorazione storica che attraverso il racconto di un duello riesce a fotografare il particolare per arrivare all’universale; rispetto a Il petroliere però The Master è anche un film che pone dei dubbi sulla propria estrema autorialità, che per quanto priva di furbizia o derive ombelicali rischia di trasformarsi in un processo tanto rarefatto e assoluto da non prevedere un ruolo per lo spettatore, un posto per sguardi esterni e indiscreti. Ma se nel marasma critico seguito alla sua presentazione veneziana l’aggettivo più ricorrente per descrivere il film era “freddo”, oggi, dopo il lusso di più visioni effettuate, quello statuto glaciale ci appare adeguato solo se ci ricordiamo che a volte il ghiaccio brucia più del fuoco e a toccarlo a mani nude ci si finisce attaccati. Staccarsi poi non è affatto facile.
Anticipato da una lavorazione sofferta e lunga anni, e dalle infinite polemiche che vi seguirono, The Master è il confronto tra un maestro e un allievo ma anche una storia d’amore, il racconto di due uomini scissi e complementari ma pure una sofferta e ideale relazione tra padre e figlio. E’ la fotografia di un ritorno, la ricerca di una palingenesi che possa alleviare il dolore e dare senso al trauma, che possa rispondere ai perché che una guerra deposita nella mente del reduce. E’ la storia di chi rimane indietro, inabile ad inserirsi nel nascente modello dell’american way of life e per questo lasciato da parte, alterità negata e isolata e da ciò resa vulnerabile alle fascinazioni cariche di promesse di risposte dell’ideologia religiosa. E’ un’analisi sperimentale, quasi clinica e asettica nella sua rarefazione, di come una pseudo-scienza possa trasformarsi in religione e culto, manipolazione mentale che vada ad intercettare in questo processo le vittime di quel rimosso che la società e l’autorità civile non sono in grado di gestire. In fuga dagli orrori della seconda guerra mondiale, gli anni ’50 degli Stati Uniti sono il decennio all’insegna del miglioramento e della definizione di sé, il punto di partenza per quella costruzione ideologica dell’identità da contrapporre al blocco sovietico. E’ il momento in cui l’americano medio, tra famiglia e consumismo, vuole tornare a sentirsi “normale”, e in un contesto del genere non può esserci posto per uno come Freddie, ex ufficiale di marina tornato dalla guerra in Giappone, alcolista autodistruttivo ossessionato dal sesso e incapace di inserirsi nel tessuto sociale per mettervi radici. Freddie è puro disagio, è disaffezione, è paura, è terrore della solitudine e al contempo acuta misantropia; è un corpo smagrito e teso, piegato sulle sue ossa storte e imprigionato in un’andatura ciondolante e gobba attraverso cui Phoenix, al di là di ogni possibile elogio, veicola un dolore infinito. La sua è del resto una recitazione che – al pari dell’ultimo protagonista di Anderson, Daniel Day-Lewis – vive in ogni atomo di carne, rilanciata da una voce strascicata e una posa, quella costante delle mani sui fianchi, la quale da sola caratterizza il personaggio. A fargli da opposto c’è un altro gigante, Philip Seymour Hoffman, che lavorando sotto le righe nella minuzia dei piccoli gesti disegna Lancaster Dodd, il possente fondatore de La Causa, il personaggio che per i suoi chiari richiami a L. Ron Hubbard e il suo Dianetics tanti problemi ha causato ad Anderson. Ma per quanto nei primi mesi di lavorazione non si sia parlato d’altro, è evidente come The Master sia principalmente un film dell’allievo, che nella mente di Anderson deve aver conquistato lentamente il film scena dopo scena, battuta dopo battuta.
Pur mantenendo molti dei temi tipici del suo autore – su tutti quello della famiglia, che dalla factory di Boogie Nights diviene qui La Causa – The Master appare lontano anni luce da tutto il precedente cinema di Anderson; infatti, pur essendo connesso concettualmente con Il petroliere – sono entrambi tasselli di un nuovo percorso di riscrittura storica e cinematografica –, è un film che compie rispetto ad esso un ulteriore balzo indietro nello spazio/tempo, facendo dell’introiezione il suo principio fondante. Entrambe le categorie infatti subiscono una forza centripeta inedita, che attira il tempo in una narrazione compressa e intrappola i corpi in un costante e dialogico campo contro-campo in stretti interni, quando ciò che più caratterizzava un tempo lo stile di Anderson erano racconti corali e soluzioni formali (panoramiche improvvise, piani sequenza) atte ad evitare un montaggio dialogico classico. Con The Master Anderson sancisce un netto passaggio dal movimento all’immagine fissa, e pur non rinnegando qualche carrello e piano sequenza (le scene nei grandi magazzini, le fughe a piedi e in moto) si concentra sempre più sulla singola inquadratura, innalzandone esponenzialmente il potere significante. Il suo linguaggio così si addensa e stratifica tanto da poter trasmettere tutto il trauma del ritorno a casa di Freddie con un singolo fotogramma (una su tutte, la plongée di lui sdraiato sulla nave da guerra). Parlato e statico come mai prima d’ora, The Master è anche un film ragionato e costruito con profonda consapevolezza sui 65 millimetri in cui è girato, un formato scelto per la sua particolare resa cromatica e sfruttato in tutto il suo gigantismo con costanti primi piani, inquadrature strette e soffocanti che anche in una proiezione canonica lasciano immaginare la potenza della loro portata originale.
Oltre a tutto ciò The Master, parimenti in questo a Il petroliere, è un film profondamente pessimista. Nella narrazione del rapporto tra Freddie e il maestro assistiamo all’incontro/scontro di due uomini opposti ma tra loro intimamente necessari, l’uno puro Es animale e l’altro super-io controllante e manipolatorio; l’uno bisognoso di una guida cui ubbidire e l’altro di un figlio da plasmare; l’uno in cerca di un padrone da ripudiare e l’altro di un fedele per potersi definirsi leader. Tutto il film si sviluppa attorno al loro conflittuale rapporto, alimentato dal bisogno intrinseco nell’uomo di sottomettere ed essere sottomessi, di comandare e ubbidire, di cercare una guida per poterla prima rinnegare e poi, infine, assimilare. Per prendere il suo posto, preparandosi a divenire il nuovo maestro.