Pinocchio
Il punto di arrivo di un percorso verso il cuore della fiaba: il Pinocchio di Garrone
Approdo finale di un percorso indirizzato verso la purezza del sentimento nella fiabistica italiana che ha portato Matteo Garrone a misurarsi con il cuore della tradizione favolistica nazionale, dapprima adattando Il racconto dei racconti di Basile, proseguedo poi con la cronaca nera di Dogman virata in tonalità fin troppo concilianti per una storia tanto torbida, giungendo infine all’opera che più di tutte ci rappresenta: Pinocchio di Carlo Collodi. Non c’è opera migliore per ampliare il bestiario sociale di Garrone. Esseri antropomorfi, lumache e grilli parlanti, come orchi e negromanti, come giannizzeri e nani, il mondo cinematografico di Garrone è un ricettacolo di meraviglie per le quali la metamorfosi ovidiana non si è ancora del tutto conclusa, ancora in trasformazione per risultare di essere solo entità di carta e fantasia, e che continuano a possedere un apparato cardiaco nel quale domina il cuore dell’umanità. Dal carattere antologico di Basile, mantenendo sempre, e ancor prima di giungere a Il racconto dei racconti, la struttura evolutiva e narrativa classica proppiana, Garrone volge la fiaba umana, e il suo cinema, all’inseguimento del viaggio dell’eroe dal sentimento puro verso i confini dell’avventura. Che siano giganti di borgata, draghi, ideali sociali di successo che possono far vivere la realtà come un finto reality, o che siano gatti e volpi, o paesi di balocchi immaginari, gli impedimenti che la purezza del cuore umano deve affrontare sono prove attraverso le quali misurare l’idealismo della bontà d’animo; narrazioni che esigono di consumarsi in un happy ending anche in quei casi in cui la fedeltà narrativa avrebbe imposto un finale più amaro. Ed è proprio questa amarezza, propria della favolistica di fine ottocento, e che ancora conserva l’oscurità del tratto romantico tanto da essere stata inclusa da Collodi stesso nella proposta fatta al suo editore – nella volontà di terminare a metà la fiaba dapprima pubblicata a puntate su il Giornale per i bambini con l’impiccaggione di Pinocchio – é proprio questo senso di vuoto romantico che svanisce nella magia del caparbio burattino mosso dalla purezza emotiva, un seme di bontà in un terreno affamato e macilento, fino al ricongiungimento con il suo creatore Geppetto. Pinocchio è la favola che più appartiene all’Italia, caratterizzante di ogni italiano, mosso dalla bontà e indotto al raggiro dal contesto sociale, povero e ruffiano, un disperato e romantico eroe degli stracci. E’ l’anima di una nazione a uscire dal legno grezzo, e Garrone, artista che sa come si lavora con la plasticità del grottesco, avvezzo alla macchiettistica di costume, estrapola dal legno l’immagine idilliaca, e pura, dell’italianità.
Conducendo la narrazione in location fedelmente selezionate nelle bellezze paesaggistiche nostrane (dalla Basilicata alle colline toscane) e lasciando al dialetto la sfumatura geolocalizzatrice della recitazione, Garrone con il suo Pinocchio mostra l’Italia intera. Un’Italia, da fine ‘800 alla contemporaneità, dove non è difficle riconoscere gli esiti di una formazione sociale volta alla chimerica meta del paese dei balocchi (finto quanto un reality), a dispetto della fatica e del lavoro. Caratteristica quest’ultima fondante dell’appartenenza di una Nazione come la nostra dove l’individuo è portato a sopravvivere, lavorando o immaginando una soluzione alternativa alla fatica. Se la realtà dei primi film cede il passo all’immaginazione, caratterizzando una filmografia in lenta metamorfosi, Pinocchio per Garrone è l’apice della trasfigurazione, è il cuore dell’anima grottesca, è il primo (e finora unico) personaggio ad aver raggiunto la forma finale, un essere di legno, carta e cuore, definitivamente immaginario, un burattino che diventa bambino in carne ed ossa restando pur sempre nei vincoli della fiaba, un ideale puro sviscerato da un contesto immaginario. Il cinema ha raggiunto la sua piena metaformosi e forma finale, il pescivendolo napoletano e il De Negri sono usciti dal bozzolo della realtà trasformandosi in lepidotteri in grado di volare sospinti dalla bontà d'animo e dalle loro buone intenzioni; è l’italiano stesso a essere uscito dalla pupa del proprio paese ed essersi inalzato come individuo umano.
E’ nei personaggi secondari non inclusi nella trasposizione, nelle modifiche sceneggiaturiali, nelle selezioni di materiale da includere o meno che si definisce l’intera operazione garroniana. La volontà di non far tornare nel finale Lucignolo oramai mutato in ciuchino e divenuto di proprietà del contadino, simbolo della schiavitù non sublimata dallo studio e dalla conoscenza, è una scelta molto indicativa sul messaggio che Garrone vuole dare al suo Pinocchio. Quest’ultimo burattino senza fili, privo quindi di un legame che lo assoggetti alla realtà, anima pura e avventuriera - “l’avventuriero è dentro di noi, e lotta per noi contro l’uomo sociale che siamo costretti ad essere” (Bolitho, Dodici contro gli Dei, Atlantide 2019) - che nel finale si assoggetta solo al suo creatore, fuggendo dalla fine tragica di ogni avventura. Pinocchio che nella versione di Garrone risulta mancante del suo contraddittorio, Lucignolo, bambino con fili, oramai schiavo della sua egoistica istintività, avventuriero che ha concluso la sua avventura: “Ad attendere gli avventurieri c’è una tragedia più sottile della rovina, di una vecchiaia di stenti, della miseria, del disprezzo. C’è la condanna a cessare di essere un avventuriero. La sua legge morfologica vuole che, dopo tutta la strada fatta per diventare una farfalla, sia condannato al culmine del suo sviluppo a trasformarsi in bruco” (Bolitho). Proprio questa mancanza nel finale spiega con decisione sia la forza sia la debolezza dell’operazione del regista. Escludendo dal suo adattamento la ricomparsa finale di Lucignolo esclude dalla fiaba la morale sociale che più rappresenta la fiaba stessa, e se da un lato aumenta il carattere immaginario di Pinocchio, andando al cuore del personaggio, dall’altra ne esclude le connessioni con una realtà che non si palesa più come ammonimento. La sensazione di leggerezza che rimane post visione deriva proprio dalla scelta di aver raschiato via le scorie dal reale, in una mutazione definitiva, giungendo unicamente nel mondo delle fiabe e dei balocchi. Il raggiungimento del cuore del personaggio, e il realizzare con amore una trasposizione cinematografica della fiaba di Collodi, concede a Garrone di chiudere una parentesi del suo cinema, un percorso necessario per il compimento della sua cinematografia, ma che non aggiunge nulla alla tradizione favolistica su Pinocchio. Se Comencini aveva colto l’anima pura del bambino dalla miseria di un intero Paese mantenendo della fiaba una derivazione sociale (utile allo scopo la sua indagine sociale della serie tv I bambini e noi), Garrone leviga il legno dagli avanzi che lo trattengono nell’impasto della realtà, e a metamorfosi conclusa, ci concede un Pinocchio atomizzato nella sua bontà, un personaggio puramente di carta e fantasia, buono per un pubblico di innocenti.