Dossier Steven Spielberg/16 - A.I. Intelligenza artificiale
Opera stratificata e affascinante, inevitabilmente irrisolta ma uguale a nessun’altra, che apre la nuova straordinaria fase dello Spielberg anni 2000.
Nel 2001 A.I. Intelligenza artificiale sancì l’inizio di una nuova fase all’interno della filmografia spielberghiana, divenuta man mano sempre più oscura e lontana dall’ottimismo che aveva reso celebre il suo autore. Nuova fase che aveva avuto alcune anticipazioni con le incursioni del decennio precedente nei drammi della Storia (Schindler’s List, Amistad e Salvate il soldato Ryan), a loro volta precedute dai primi esperimenti degli anni Ottanta (Il colore viola e L’impero del sole).
A nessuno di questi però si può attribuire la medesima portata rivoluzionaria del fim del 2001, nel quale per la prima volta Steven Spielberg effettua un cambio di rotta nel rapporto intessuto con il genere fantastico, fino a quel momento territorio di pura fantasia nel quale il suo cinema aveva trovato sempre la strada per trasformarsi in sense of wonder, in meraviglia stupefacente.
Da A.I. in avanti, invece, è come se Spielberg avesse voluto progressivamente smantellare l’immagine di regista per famiglie che altri gli avevano costruito su misura, utilizzando la fantascienza per raccontare futuri virati in nero (Minority Report) o sguardi apocalittici sul crollo delle certezze contemporanee post 11 settembre (La guerra dei mondi). Se c’è un immagine del film che ben rappresenta questa sorta di nuovo corso, è quella della “luna crescente” , ovvero la trappola mortale per i robot che richiama alla mente la celebre sequenza del volo in bicicletta di E.T. – L’extraterrestre (e divenuta poi il logo stesso della società di Spielberg, la Amblin Entertainment), che qui viene ribaltata di significato ad assumere una concezione di totale pericolo, quindi negativa.
Come noto, A.I. nasce da un progetto inseguito da Stanley Kubrick sin dai primi anni Novanta, dapprima posticipato in attesa di nuovi sviluppi nelle tecniche degli effetti speciali e poi accantonato in seguito alla sua morte, avvenuta nel 1999. Tratto dal racconto (brevissimo) I supergiocattoli che durano tutta l’estate dello scrittore inglese Brian Aldiss, e contaminato con l’immortale Pinocchio di Carlo Collodi, il progetto passò quindi nelle mani di Spielberg, il quale decise di raccogliere l’eredità kubrickiana scrivendo interamente da solo la sceneggiatura, cosa che non accadeva dai tempi di Incontri ravvicinati del terzo tipo, che a posteriori si rivela un dettaglio non secondario per cogliere la natura personale infusa nel progetto.
Tornando indietro con la memoria, uno degli atteggiamenti critici più frequenti all’epoca fu infatti quello di cercare di riconoscere nella pellicola cosa fosse di Kubrick e cosa di Spielberg; un passatempo totalmente inutile e fine a se stesso, dal momento che è impensabile tentare anche lontanamente di attribuire un’impronta kubrickiana a un film che, invece, è un prodotto spielberghiano in tutto e per tutto.
Nonostante sia facile intuire quali fossero gli aspetti della storia di Aldiss che catturarono l’attenzione del regista di Arancia meccanica, A.I. è un film che, passando di mano, ha regalato a Spielberg l’occasione di infondere la propria poetica e personalità all’interno di un’opera stratificata e affascinante, inevitabilmente irrisolta (data la complessità del substrato filosofico insito nel rapporto uomo/macchina) ma uguale a nessun’altra. Suddiviso in tre tronconi narrativi ben distinti tra loro (la vita in famiglia, la fuga e il futuro più remoto), A.I. è un viaggio emotivamente destabilizzante al termine della vita e del Tempo, che trova nella figura del piccolo robot David la chiave di lettura per raccontare l’immortalità del pensiero (e del calore) umano.
In un futuro prossimo nel quale le inondazioni hanno distrutto le coste e il benessere di pochi è stato garantito a costo di enormi sacrifici, la convivenza tra gli esseri umani e i robot (i mecca) ha raggiunto un equilibrio pronto a raccogliere una nuova, estrema sfida: un robot bambino in grado di amare. Spielberg racconta l’odissea di questo moderno Pinocchio ponendo l’accento su un aspetto inquietante, ovvero il fatto che le intelligenze artificiali sopravvivranno ai loro creatori, i quali sono quindi portati a nutrire odio e diffidenza nei confronti delle loro stesse creature: in un mondo in cui l’umanità sembra aver smarrito i propri connotati (le fiere della carne, veri e propri olocausti ai danni dei mecca), la speranza va riposta nel sentimento sincero provato da David verso la madre, che diventerà l’unica (l’ultima) testimonianza del calore della razza umana nel futuro remotissimo del terzo segmento del film.
“Attenzione, questo robot ha conosciuto gli esseri umani” , ammonisce un mecca del futuro, ed è un’eredità di angoscia che non si dimentica facilmente, in un finale che nasconde dietro la propria patina zuccherosa una natura terminale carica di dolore, prima di affacciarsi a un’eternità nella quale non resterà più traccia dell’essere umano. Un film coraggioso e a tratti persino sperimentale (basti pensare all’audacia narrativa dell’ultimo quarto d’ora), che non andò incontro ai gusti del grande pubblico risultando il primo, grande flop al botteghino per Spielberg dai tempi di 1941 – Allarme a Hollywood.
Presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, uscì nelle sale italiane nell’ottobre 2001: l’11 settembre era Storia da poche settimane, e la visione degli scheletri delle torri gemelle, nella Manhattan intrappolata nel ghiaccio del futuro di duemila anni più avanti, fu un momento che chi all’epoca visse in sala probabilmente non dimenticherà mai.