CINEMA E TEMPO - Non ci resta che piangere
Lontano da ogni attrazione per gli aspetti tecnico-narrativi del viaggio nel tempo, il classico della coppia Troisi-Benigni è un sonetto giocoso, un’ode allo spaesamento.
[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane.
Questo dossier propone una serie di film che, in modo molto diverso tra loro, riflettono e “sperimentano” il viaggio nel tempo; una costellazione di titoli, per provare a capire come il cinema abbia affrontato l’argomento nelle sue diverse ramificazioni].
Tra i film che nella prima metà degli anni ’80 hanno utilizzato l’espediente del viaggio nel tempo come materiale narrativo, Non ci resta che piangere occupa una posizione quasi unica, certamente insolita, disinteressato, così com’è, agli elementi fanta o para-scientifici che dominano gran parte delle produzioni coeve, soprattutto statunitensi.
Non c’è, nel film del duo Benigni-Troisi, fascinazione alcuna per i meccanismi, le ricerche e gli strumenti tecnici e tecnologici che consentirebbero il viaggio nel tempo, né un briciolo di interesse per presupposti teorici o elaborate speculazioni scientifico-filosofiche. Non ci sono cyborg venuti dal futuro (Terminator, uscito negli Usa due mesi prima della distribuzione italiana di Non ci resta che piangere) né scintillanti ed evolutissime DeLorean genialmente modificate da scienziati capaci di utilizzare un “flusso canalizzatore” (Ritorno al Futuro, il film sul tema più iconico e celebre della storia del cinema, uscì pochi mesi dopo, nell’estate del 1985, negli USA). Non a caso nell’opera italica le macchine del tempo non sono neanche contemplate, nominate.
E a guardar bene non vi si rintraccia neanche un barlume di proposito storicistico, filologico, in quella che è, nei fatti, una rappresentazione intenzionalmente approssimativa e disorganica della realtà storica della fine del Medioevo e del Rinascimento. Infatti le scenografie di Francesco Frigeri, al suo esordio come scenografo, non fanno che enfatizzare la natura posticcia, avulsa, volutamente bozzettistica, della costruzione cinematografica, come egli stesso ebbe a dichiarare («con due personaggi così bisognava dare sfogo ad una fantasia sfrenata seppur ancorata agli stereotipi dell’epoca»).
Tutto questo accade, molto semplicemente (e forse banalmente) perché Non ci resta che piangere non è un film sul viaggio del tempo ma con un viaggio nel tempo. E questo non è imputabile al mero fatto che si tratti di un film comico, dunque non un film di genere fantascientifico o con richiami di quel tipo. Anche A spasso nel tempo, fatti i dovuti distinguo con il film di Troisi e Benigni, è un film comico incentrato sulle (dis)avventure di due simpatici protagonisti alle prese con stravolgimenti temporali. Ma il film di Carlo Vanzina una macchina del tempo ce l’ha e i viaggi nel tempo si moltiplicano nello srotolarsi della trama. Non ci resta che piangere non è soltanto una commedia; è un film surreale, poeticamente (e, pensando al Benigni di Cioni in Berlinguer ti voglio bene, forse anche ferocemente) nostalgico per la vita pre-industriale, per un mondo semplice, sgombro (sottopopolato e sotto consumato, di suolo ma non soltanto), dégagé. Un mondo ancora fortemente local, non ancora global né tantomeno glocal. Nel 1492, l’anno della scoperta delle Americhe in cui Saverio (Benigni) e Mario (Troisi) si ritrovano senza l’ausilio di marchingegno alcuno, l’unica risposta che gli autoctoni possono dare ai due viaggiatori temporali che chiedono cosa si trova fuori da Frittole è…Frittole. Non c’è altro che Frittole per loro.
A muoversi verso la penisola iberica possono essere solo Mario e Saverio, uomini di quel ‘900 a cui aspirano a ricongiungersi, conoscitori della geografia mondiale e, soprattutto, della Storia, delle storie, delle cose a venire, meravigliosamente, comicamente ridotte ad una dimensione iper-individuale. Il viaggio in Spagna per fermare Colombo, ammantato dalla favella di Benigni di un nobile obiettivo pacifista dall’afflato mondiale, ecumenico (impedire lo sterminio degli indigeni e la riduzione in schiavitù degli africani) non è che una divertente e picaresca macchinazione per impedire la nascita stessa di Fred, il fidanzato statunitense, conosciuto nella base Nato di Pisa, che avrebbe poi spezzato il cuore della sorella Gabriellina, insopportabile cruccio dell’affranto Saverio.
Siamo chiaramente, ampiamente, fuori da ogni velleità critica e intellettuale alla Pasolini della “trilogia della vita” (la superiorità della natura sulla cultura, l’ammirazione per il mondo delle borgate e del cristianesimo primitivo, l’interesse letterario per il Medioevo, l’autenticità dell’erotismo, la lotta contro la morte). Il salto temporale non è che un pretesto per consentire un confronto tra il modo di vivere dei moderni e quello dei predecessori, per giocare con la Storia – da Cristoforo Colombo a Leonardo da Vinci, passando per Savonarola, oggetto della celebre, spassosissima lettera – e, allo stesso tempo, esaltare i contrasti tra Benigni e Troisi (non solo dialettali, anzi soprattutto caratteriali), concentrandosi sulle gag e sullo sviluppo di quel poco di scheletro drammaturgico che i due attori/autori avevano imbastito, decidendo di affidarsi a guizzi e improvvisazioni piuttosto che a rigidi binari narrativi.
Non ci resta che piangere non è che un sonetto giocoso, uno sberleffo anarchico e irreale, del tutto disinteressato alla tessitura e alla progressione del racconto verso il suo finale. Non importa, allora, se Saverio e Mario riusciranno a tornare o meno al loro secolo, alle loro vite di prima, ché esse erano già tronche, incompiute, irrealizzate. E perciò splendidamente umane.
Ecco, quindi: il viaggio nel tempo è qui soltanto la metafora, il compimento ulteriore, oltre misura, l’iperbole di uno spaesamento, di un perdersi che se all’inizio può apparire amaro (la disperazione, soprattutto di Mario, quando si convince del salto indietro di cinque secoli) finisce man mano per stemperare l’acredine della scomparsa e schiudersi al caso, all’avventura.
Forse allora, viaggiare nel tempo, non è, in fondo, che un’altra possibilità, l’invenzione di una vita nuova.