La forza di gravità domina The Last Step: una potenza invisibile che fa cadere a terra personaggi e oggetti e, sul piano narrativo, fa precipitare gli eventi e i ricordi. Non a caso la sensazione diffusa è di camminare tra delle macerie, scontrandosi fra resti e frammenti difficili da ricollegare alla costruzione originaria. Un film nel film, un triangolo amoroso, un morto che continua a parlare e il mistero della sua scomparsa: sembra che il regista Ali Mosaffa (che, tanto per rafforzare gli incroci, è qui regista, attore e anche marito della co-protagonista Leila Hatami, volto a noi noto per Una separazione) si sia lasciato sommergere dalle idee e non abbia voluto scartarne nemmeno una. Il film soffre infatti di una sovrabbondanza di trame, punti di vista e flashback che mette a repentaglio la sua stessa intelligibilità. Leila non riesce a pronunciare una battuta durante la ripresa di un film: deve recitare la parte di una donna che dialoga con il fantasma del marito, ma nei fatti lei stessa ha perduto da poco il proprio compagno, il cui spirito però continua ad aleggiare nell’aria. Altri spettri, stavolta dei ricordi, sono messi in gioco, come quello di un amore giovanile dal duplice volto e non solo; la morte del compagno viene continuamente ridiscussa aggiungendo al racconto le eventuali responsabilità che possono avervi avuto la moglie e l’amico medico, che non a caso cerca di partecipare alla realizzazione del film.
Dispiace dirlo, visto che la scrittura dei personaggi non é né scontata né superficiale, ma The Last Step – presentato ieri in concorso a questo 18° MedFilm Festival – si rivela un bel pasticcio troppo pretenzioso che non tarda a confondere e innervosire lo spettatore. Anche la storia più intricata necessita di una certa coerenza stilistica per poter essere raccontata, e il film sconta la sua eccessiva somiglianza con ciò che vuol mostrare, ovvero la complessità della realtà che impedisce di comprenderne il disegno che si cela dietro di essa. Nella vita i conti non tornano, come la misura asimmetrica dell’ultimo scalino di una fila altrimenti regolare in cui il protagonista continua ad inciampare, e l’equilibrio è un’esperienza sempre effimera destinata a concludersi con una caduta. Troppo si assomigliano i due film uno dentro l’altro, le stesse sequenze e battute vengono continuamente ripresentate in più punti assumendo significati diversi. Un thriller senza colpevole e senza soluzione, che pretende più di una visione per poter mettere insieme i pezzi. Ci sono figure sfuggenti nascoste dietro una maschera, come i personaggi della donna e del medico, che non a caso sono anche gli attori del film allestito, rispetto a cui stride l’assoluta trasparenza spirituale del fantasma. La vita, così complicata, diventa assolutamente chiara dopo la morte, e la voce ingenua e schietta del morto è il ruolo che maggiormente ispira simpatia; un uomo che non ha fatto altro che perdere l’equilibrio, perdere di vista il senso delle cose e lasciarsi confondere dalle bugie altrui.
The Last Step non porta in scena una semplice rappresentazione dialettica del rapporto realtà/fantasia o vita/morte, ma la disgregazione maggiormente potente della coscienza la cui unica reale intuizione è quella di non riuscire a capire. Tutto ciò gravita disordinatamente all’interno della dimensione filmica, ma con una tale fatica da svalutare il senso stesso della storia. Non che si pretenda dal regista una visione comoda e armonica, quanto piuttosto sufficientemente capace di reggere i molteplici fili di una trama sfaccettata, e anche di saper rinunciare, sottrarre, senza che questo significhi per forza depauperare significativamente il racconto. L’alternativa è il caos, e la distanza dello spettatore infine sopraffatto. Se il film, per raccontare il disordine dell’esistenza, si confonde esso stesso, allora non rimane altro finale che l’autodistruzione.