Occhi vivaci, voci squillanti, mani frenetiche manifestano un’insolita sicurezza per chi ha vissuto sulla propria pelle il disagio dell’emarginazione in un periodo di trasformazione, tra conflitti subiti e incerti nascondigli. Le storie di Pierrot, Bernard, Thérèse, Babet, Yann e Monique, tra gli altri, affollano lo schermo con un impatto straniante per il sorriso che riesce a celare il dolore di una realtà graffiante, accettata nella consapevolezza di una diversità marchiata a fuoco come un’eresia. La macchina da presa buca questi volti rugosi fino ad immergersi nel privato più profondo, scavando in una dimensione interiore che ora affiora con dignità, orgoglio e tenacia.
Presentato a Cannes nella sezione Special Screenings, Les invisibles di Sebastien Lifshitz viene accolto anche nella selezione ufficiale del MedFilm romano. Il documentario del regista e scenografo francese si carica di una denuncia sociale che innerva ogni sillaba pronunciata da queste persone, unite nella condivisione dell’omosessualità e della vecchiaia. Borghesi, sindaci, contadini, infermieri e allevatori di uccelli cercano di incanalare la pesante scoperta di una divisione interiore in una parvenza di serenità, che mascheri in quello stesso contenimento forzato la sensazione di sentirsi perennemente sbagliati. Nati tra le due guerre mondiali, uomini e donne si raccontano ripercorrendo anni di confusione, solitudine, amarezza e camuffamenti nell’obbligo di dover inventare continue strategie per una fuga verso la libertà di poter esprimere se stessi. La pellicola si carica di tutta l’angoscia finalmente riassorbita nella restituzione di una voce da tempo negata. Immagini di repertorio e vecchie foto si affiancano a interviste attuali che coprono quasi un secolo di storia francese, una storia che è anche quella individuale e intima di coloro che sono rimasti divisi nel desiderio impossibile di essere come tutti gli altri. In una società che costringe alla menzogna e al rifiuto di sé e dell’altro, è difficile individuare la via per una vita costantemente combattuta nell’ombra, per chi, comunque, respira, ama e sogna come tutti. Questi protagonisti si svelano all’obiettivo senza più paura, lasciando allo spettatore il compito di stupirsi della luce che ne illumina gli sguardi coraggiosi, carichi di una spontaneità mai abbandonata nonostante le difficoltà, sicuramente in tempi più duri e chiusi di quelli odierni, quando l’omosessualità era considerata in termini di malattia.
Già regista di Quasi niente, La traversée e Wild Side – quest’ultimo vincitore del Teddy Award al Festival di Berlino – Lifshitz realizza con Les invisibles un’altra storia-limite, affrontata con un taglio originale e approfondito. Nell’affastellarsi di annotazioni e ricordi si evidenzia tutta la distanza di queste prese di coscienza rispetto a quanto accadeva negli Stati Uniti nello stesso periodo di fermenti a contrasti. La macchina da presa si apre su una prospettiva diversa che illumina immagini di aperta campagna e distese naturali sconfinate e selvagge, che se contrastano con i racconti di prigionia psicologica finiscono per sottolineare quello stesso confinamento ai margini del mondo sociale, ostacolato con quanta più forza possibile. Lontani da contestazioni e movimenti, questi individui non si tingono di eroismo pionieristico né di ripiegamenti vittimistici, ma si rivelano in racconti di ricerche personali volte a individuare ognuna la propria identità.
Les invisibles è un progetto che offre lo spaccato di una realtà di lotte e mutazioni, dove alla coercizione di convenzioni e apparenze facevano da contraltare movimenti votati ad abbattere ogni barriera. Pur nei compromessi e in soluzioni rintracciate nel diniego e nel segreto di scomode verità, non manca un sotterraneo senso di umorismo gioioso che vena quel viaggio alla scoperta di sé, complesso e duro ma finalmente libero dalla vergogna.