Sharing an Island di Danae Stylianou richiama alla mente recenti memorie televisive: il format del reality è la prima cosa che sopraggiunge guardando questo documentario, che si propone si chiudere in un unico ambiente persone che non si conoscono per vedere cosa può succedere. Trattasi nel caso specifico di abitanti dell’isola di Cipro provenienti dalle due parti in cui è diviso al momento l’atollo, il governo greco e quello turco. In altri termini una comunità fatta di antagonisti naturali, data l’oramai sedimentata avversione reciproca, fin dai tempi della guerra di Troia, fra i due popoli. Nel 1973 un colpo di stato portò all’occupazione greca della giovane Repubblica di Cipro, cui rispose l’invasione turca di parte del territorio cipriota che portò alla divisione dell’isola in due stati: uno, quello greco, attualmente parte dell’UE, l’altro riconosciuto solamente dalla Turchia. Come nelle vecchie Germanie dell’Ovest e dell’Est i due popoli vivono sulla stessa terra situazioni economiche e culturali del tutto differenti – anche se ci si chiede quanto abbia influenzato la crisi greca sulla parte “benestante” del paese –, difficili a incontrarsi anche per le semplici barriere istituzionali che impediscono il libero passaggio da una parte all’altra dell’isola.
Il film registra dunque un incontro di diversità, di condivisione di aneddoti familiari, di lingue – l’uso neutro dell’inglese è largamente adoperato – e soprattutto di solitudini personali. Tutti i protagonisti soffrono del paradosso della storia: se da una parte ricordare significa riconoscere le responsabilità dei singoli, la stessa ostinata memoria impedisce di buttarsi alle spalle le ferite del passato. Gradualmente emerge la sensazione diffusa di come le forze politiche di entrambi le fazioni abbiano agito al di sopra delle proprie comunità di appartenenza, manipolando ad hoc il sentimento patriottico; né gli abitanti però decisero, a loro volta, di ripudiare tali ideali, immergendosi invece nel risentimento e nel rancore gli uni verso gli altri. Questo, almeno, fino ad ora. Sharing an Island fotografa come la crescente globalizzazione, tra tanti biasimi, abbia avuto il merito di allentare quel patriottismo che, diceva Samuel Johnson, in fondo “è l’ultimo baluardo delle canaglie”. Cittadini del mondo, dunque, né turchi né greci ma solo abitanti del medesimo luogo. Nessuno degli intervistati rifiuta infatti l’idea di una futura riunificazione dell’isola, con conseguente incontro e miscuglio delle due parti in un’unica popolazione.
Il background televisivo ha un ruolo preponderante nel film: come nei reality show un gruppo di persone diverse viene inserito sotto lo stesso tetto, ogni giorno si effettuano “prove” differenti – la visita prima a una moschea e poi a una chiesa ortodossa, al vecchio aeroporto abbandonato dopo il colpo di stato, e alla parte turca dell’isola – e si registrano le singole reazioni dei partecipanti che ripercorrono la giornata e commentano gli avvenimenti. Curioso come una forma di intrattenimento sia stata traslata in un contesto tanto differente; il film apre a futuri scenari in cui l’esperimento della coabitazione televisiva forzata, piuttosto che perdersi nei rivoli dell’autoesaltazione più degradante, possa assumere aspetti più utili al dibattito politico e culturale.
La pacifica armonia con cui scorre Sharing an Island è anche però un effetto del montaggio: il non detto si nasconde dietro la consapevole quanto invisibile mano che sceglie quali momenti mostrare e quali no, decidendo l’atmosfera finale del documentario. Lo sguardo non è mai neutro, ma politico, e la volontà di superare gli antagonismi è prima di tutto negli occhi di chi filma, che non a caso ha scelto di effettuare tale esperimento. Antagonismi e relativi pregiudizi del tutto retrogradi al giorno d’oggi se, si spera, si è ormai compreso che il patriottismo è solo, per chiudere con George Bernard Shaw, “credere che il tuo paese sia superiore a tutti gli altri perché tu sei nato lì”.