Mia madre
La morte della madre porta a compimento tutti i peggiori incubi del cinema di Moretti, spingendolo ad una resa dei conti, forse definitiva, con se stesso e con la realtà che lo circonda.
Ancora un set, ancora un film nel film. Inizia così Mia Madre di Nanni Moretti, nel mezzo delle riprese di un film politico che vede gli operai di una fabbrica scontrarsi con i poliziotti in assetto antisommossa. Immagini che sembrano provenire da un altro tempo, da un’altra epoca. E infatti dopo una manciata di minuti si rivelano per quel che sono: semplicemente finte. Proprio come quelle del musical sul Vietnam o della Mamma di Freud di Sogni d’oro, del pasticcere trozkista di Aprile e di Berlusconi del Caimano (addirittura raddoppiate dal B-movie Cataratte). Ecco il magnifico parodosso del cinema morettiano: fare un film e immaginarne al contempo un altro, o più di uno, di segno completamente diverso. Un’anomalia praticamente unica nel panorama cinematografico mondiale. Su dodici film ben quattro raccontano di un regista e/o di un film in lavorazione. Segno di uno sdoppiamento, certo, ma forse anche di un limite dell’autore di raccontare il reale al di fuori del perimetro circoscritto del set (e dunque della propria esperienza personale). Tant’è che quel che conta nei film più scopertamente metafilmici di Moretti non è mai il progetto da realizzare, quanto piuttosto la messa in scena del cinema al lavoro, il racconto dell’esperienza del set (il rapporto con gli attori, la macchina organizzativa, i sogni, le paure, le angosce del regista) e soprattutto il resoconto privato, intimo, di un sentimento di inadeguatezza.
In alcuni casi il film nel film si integra perfettamente nell’opera e dunque nella vita del personaggio (pensiamo ovviamente a Sogni d’oro che rinvia e rilancia il rapporto conflittuale tra Michele Apicella e la madre), in altri invece produce una frattura netta tra cinema e vita, segnando una distanza ulteriore, come nel Caimano e in quest’ultimo, Mia Madre. Non ci sono ancoraggi, né giochi di rispecchiamenti. Le due dimensioni corrono in parallelo senza mai incrociarsi.
In ogni caso i fan della prima ora lo sanno bene: Moretti trasferisce nella finzione del set quei film che non realizzerebbe mai in prima persona. Perché lontani dalla sua sensibilità registica, oppure perché incapaci di stare in piedi autonomamente. Un’operazione rischiosissima, tanto più nelle opere in cui si da molto peso al film finzionale. L’azzardo sta proprio nel tentativo di personalizzare immagini altre con il rischio di venirne in qualche modo fagocitati. Pensiamo ancora al film su Berlusconi: schegge, frammenti, ipotesi incompiute di un’opera militante che non avrebbe spostato nessun equilibrio. “Chi voleva sapere, sa. Chi non vuole capire..” Notava giustamente lo stesso regista nella prima apparizione in macchina anticipando le critiche al film. Tant’è che alla fine la sintesi di quel magma di visioni risultava essere la sequenza della condanna. Ovvero l’unica immagine inedita (e filmata davvero) in un repertorio fin troppo prevedibile e stanco. Ma non poteva bastare a riscattare un’opera certamente complessa, dolorosa e con diversi spunti interessanti, eppure clamorosamente distante dal reale. Il personaggio di Jasmine Trinca è emblematico di questa debolezza al contempo filmica e sociologica: una giovane regista senza esperienza, bella, brava, intelligente, alternativa che sta dalla parte giusta e che sente l’urgenza di fare il film. Senza dissidi, se non nel debole riferimento alla sua omosessualità e alla relazione con la propria compagna, tra l’altro rivelata in uno dei momenti peggiori di tutto il cinema morettiano, ovvero durante la gita in campagna.
Ecco, Mia madre sembra partire proprio dalla “sconfitta” del Caimano di applicare il modello onirico di Sogni d’oro all’interpretazione (dei sogni?) della società italiana degli anni duemila. In sostanza di traslare il cinema apicelliano nel mondo contemporaneo. Ed è proprio da quel fallimento, insieme con la straziante perdita della madre, che Moretti trova la forza e il dolore di rialzarsi e di stabilire non più il proprio primato (la “condanna” di essere il migliore o l’orgoglio di essere l’unico, vero regista italiano della sua generazione), quanto piuttosto lo scacco di un autore che, letteralmente, “continua a ripetere le stesse cose da anni, che non capisce più niente, un regista stronzo a cui tutti danno (erroneamente) retta”. Insomma, la sua totale inadeguatezza come persona e come regista. Una messa in discussione radicale dell’immagine morettiana che non può che originarsi ancora una volta sul set, dalla lavorazione di un film ancora scopertamente politico eppure, questo sì, palesemente e consapevolmente fuori tempo e fuori tono. E’ vero, le immagini di Noi siamo qui (titolo intriso di quella retorica che tanto infastidisce Margherita) sono ingenue, schematiche e posticce. Ma al contrario del Caimano servono a dare forma a quel sentimento di cui parlavamo poco sopra, in modo non dissimile da Sogni d’oro, di cui si recupera anche la gestione difficoltosa dell’attore indisciplinato. La differenza rispetto al passato è che per la prima volta il film nel film diventa uno specchio che riflette la propria incapacità registica, il proprio smarrimento. Pensiamo alle nuove facce operaie irriconoscibili, oppure alle dinamiche tra padrone ed operai, purtroppo anacronistiche. Ci si attacca allo stile (come non vedere in quel riferimento alla messa in scena della violenza una stoccata al Vicari di Diaz?), per rivendicare la propria posizione, certo, ma anche per non riconoscere la sostanziale inefficacia del gesto-cinema. Allora il set diventa non tanto e non solo un diversivo per alleggerire il tono del film, ma semmai il solo luogo possibile dal quale formulare il proprio bilancio personale. Un luogo pubblico e allo stesso tempo privato, rigidamente circoscritto, dal quale si vorrebbe costantemente fuoriuscire ma a cui non si può che fare sempre ritorno. Come il Vaticano di Habemus Papam, da cui il Cardinale Melville si allontanava senza direzione. Una situazione di stallo molto simile a quella di Mia Madre con la differenza che qui non c’è scelta personale o gran rinuncia che tenga. Lo impedisce il progredire irreversibile della malattia e della lavorazione. Pensiamo al bel frammento onirico in cui Margherita sbatte ripetutamente la macchina contro il muro, che rinvia, per associazione di idee, al finale di Palombella rossa. Questa breve sequenza ci fornisce con precisione la condizione della protagonista, costretta ad affrontare fino in fondo il lutto materno senza alcuna possibilità di evasione. La fuga, semmai, è affidata soltanto ad una passeggiata mattutina che ha il sapore di una fantasia bellocchiana, oppure ad un abbraccio notturno di straziante semplicità.
Ecco l’apparente ripiegamento intimista che solo superficialmente ha il sapore della resa. La morte della madre porta a compimento tutti i peggiori incubi del cinema di Moretti, spingendolo ad una resa dei conti, forse definitiva, con se stesso e con la realtà che lo circonda. Che significa prima di tutto accettare la propria posizione marginale nel mondo e poi la propria condizione di genitore, rinunciando a quella di figlio. Non più rimpianto per quel che è stato e non potrà più essere (le nugatine, le merendine, i pomeriggi di maggio), ma un bilancio amaro di cosa resta nel momento della perdita (il latino, i libri, l’impegno politico, le scelte morali). E’ anche per questo che mai come in questo film si ha la sensazione forte di un ritorno all’immaginario apicelliano (la commistione di sogno, fantasie e realtà, i tic e le nevrosi, il conflitto tra idee e mondo concreto). Sensazione avvalorata ulteriormente da alcune scelte musicali, come ad esempio Fur Alina di Arvo Part (una delle due citazione involontarie da Gus Van Sant), che ricordano, pur con esiti del tutto differenti e con toni più grevi, le melodie minimaliste ed infantili che accompagnavano i primi film di Moretti. Qualcuno lo scambierà, appunto, come un atto conservativo, una posizione di retroguardia che non sposta di un millimetro il cinema di Moretti. E forse non avrà torto. Dopotutto il cinema morettiano è sempre stato un sistema chiuso e coerentissimo. Eppure questo ripiegamento - a tratti sublime nella sua dolente levità - assume qui contorni diversi e ben più significativi rispetto al passato. Si tratta non tanto di rassicurare attraverso un linguaggio riconoscibile, ma di investire quello stesso sistema di valori, pensieri, idee, convinzioni, del radicale confronto con i propri fantasmi e le proprie ossessioni, in vista di un cambiamento che non potrà che trovare conferma nel domani. Là dove l’immagine-pensiero guarda dolcemente fuori campo, in uno dei finali più struggenti e laceranti degli ultimi anni.