Blackhat
Un lungo addio all’asfissia di un mondo digitale post-apocalittico in cui tutto appare già avvenuto, già trascorso e attivo nel generare conseguenze lontane continenti. Tranne l’amore.
E’ un oggetto a dir poco ingombrante Blackhat, occupa la mente e il cuore ma soprattutto cresce, si espande e pone sempre nuove questioni. Paradossale per un film che ti attraversa come una scossa elettrica, che sembra riesca a catturare il pulviscolo di ogni spazio aperto per trasformarlo in impulso binario, ma Blackhat è proprio come quell’ondata impossibile di bit che invadono processori, cavi, schede madri, un mare di luci che si fa sineddoche di un’operazione mai così vicina all’astrattismo, alla decostruzione, eppure alla fine ancora così carnale e sanguigna.
Michael Mann ci dona nuovamente il suo sguardo e questa volta ne fa il processo di liberazione più sofferente e duro della storia del (suo) cinema, un lungo addio all’asfissia di un mondo digitale post-apocalittico in cui tutto appare già avvenuto, già trascorso e attivo nel generare conseguenze lontane continenti. Tranne l’amore. Si dà l’addio ad un contesto che impone controllo e regole disumanizzanti per tornare infine, con un vertiginoso rovesciamento umanistico, alla libertà della carne e del sangue, che dialetticamente sullo schermo diventa sparizione dall’immagine, dissolvenza del corpo. E ancora una volta per liberarsi da ogni cosa ci si deve trovare, ci si deve inevitabilmente legare a qualcuno anche e soprattutto ora, in cui c’è solo il tempo di sopravvivere.
Blackhat. Oggetto ingombrante dicevamo, massa di bit in espansione che non può che suscitare un senso di panico, un sentore di abbandono. Tutto il film è un atto di addio al mondo e ai propri cari e a sé stessi (per reinventarsi e rivivere nello sguardo dell’altro), ma le immagini di Mann questa volta sono davvero troppo oltre, troppo avanti nella percezione quotidiana che abbiamo del cinema e del genere, per non lasciare spaesati. Il lungo addio infatti è anzitutto quello che Mann decide di sancire nei confronti del sistema iconico-narrativo della macchina hollywoodiana, mai così sfruttata dall’interno e a sua completa insaputa, proprio come un trojan caricato su un disco rigido infetto.
Da anni Mann è in grado di intersecare il suo percorso personale con la storia e l’evoluzione del cinema tutto, dai bagliori del postmoderno al ritorno classicista, dalla scoperta espressionista del digitale come mezzo poetico alla rappresentazione totale di Miami Vice, ritratto di una realtà globalizzata di rara imminenza. Chi studia, ama e segue Mann poteva per certi versi dirsi preparato, ma l’esperienza davanti alla quale ci pone Blackhat lascia esterrefatti, ma oltre lo stupore e l’emozione personale sconvolge in relazione all’ontologia del cinema e all’atto di parlarne. Blackhat dimostra ancora una volta come solo l’immagine possa descrivere sé stessa, sia autosufficiente in un circolo chiuso di rappresentazione e comunicazione in cui la parola trova con difficoltà crescente un posto all’interno di una struttura già completa. E avanzata, perché Mann riesce a sfruttare l’aggancio al mondo del crimine informatico per affondare il suo cinema nella disconnessione contemporanea da un lato e nella dissoluzione dell’immagine cinematografica all’interno del contesto ipermediale dall’altro. Un binomio su cui lavora offrendo un’immagine ormai indipendente, che si nutre del genere con il consueto rispetto (in Mann non vedremo mai il distacco di chi crede di dover “elevare” il genere ad arte) ma lo sottopone ad un processo di inarrestabile evaporazione, all’interno del quale sopravvivono scampoli di azione e di scene madri ma domina soprattutto una dilatazione che solo agli occhi più superficiali apparirà come sottrazione.
Come fosse un processo chimico, il cinema di Mann ormai sembra lavorare soltanto su ciò che resta in sospensione, sui residui concentrati di un cinema che fu mentre altre e nuove forme sorgono ad ogni scena. In questo Blackhat appare come un film quasi apocalittico, all’interno del quale domina una dimensione di successione al già dato. E’ come se la globalizzazione contenuta in Miami Vice, tutta la coca e l’eroina dalla Colombia, le armi dall’Ucraina, l’ecstasy dall’Olanda e i software piratati dalla Cina in Brasile (così viene descritto il traffico internazionale di Arcángel de Jesús Montoya) siano esplosi come un meteorite, le cui scorie avvolgono la Terra in una rete di interconnessioni neurali simili a una nube. E questo ovviamente non significa avere di fronte un cinema anacronistico e luddista, ma esattamente l’opposto.
In tutto ciò il ricorso avanguardistico al digitale torna a svolgere un ruolo fondante, tale è il livello non solo tecnico ma concettuale cui Mann riesce a portare l’acquisizione elettronica di immagini. Si pensi soltanto al duello finale, al modo in cui scorrono le comparse nella piazza e ai loro vestiti, che formano un flusso sanguigno all’interno del quale solo Nicholas Hathaway e i suoi antagonisti riescono a muoversi come anticorpi fantasmi, solo loro a fuoco in un mare di rosso e nero in indistinto movimento. O ancora il modo in cui la camera da presa può permettersi di aderire e quasi toccare fisicamente i volti e i corpi e gli occhi dei suoi personaggi, restituiti sempre con una fisicità immanente e quasi ieratica. O ancora come tornano i cieli notturni densi di luce viola, anche adesso che diventano l’ultima immagine che possiamo guardare prima di morire.
Per capire l’importanza totale di quest’operazione si pensi alla grande sfida che sta affrontando il cinema americano di oggi, la ricerca di una strada che porti ad una nuova classicità, un percorso che si rivela spesso una trappola che oscilla tra la nostalgia per l’immagine che fu e l’impossibilità di riproporla e mimarla all’infinito. Blackhat sconvolge nella sua portata proprio per la capacità di Mann di andare oltre il neo-classicismo o gli strascichi di un postmodernismo privo di sostanza, per guardare invece dialetticamente alla macchina cinema virata al digitale come allo strumento per essere classici in forma nuova e contemporanea. E allora, di fronte a tutto questo, cosa importa delle critiche in patria e del flop, quando un film ci dona così tanto in ogni suo fotogramma, ci fa partecipi di una sete di visione e prospettive e sentimenti che lascia senza fiato, a partire dagli sguardi che attraversano tutte le coppie del film (sempre tali in questo cinema, sempre pronte a riconoscersi nel rivale e amare il proprio doppio) per andare alle prospettive inedite di città e microchip che diventano una cosa sola come fossimo in un sillogismo di Aristotele, dove particolare e universale rivivono l’uno nell’altro. Allora è proprio qui, in questo rovescio dialettico che permette la sintesi reciproca degli opposti, che Blackhat trova la sua definitiva consacrazione.
Come fossimo in uno straziante melò di Wong Kar-wai, più volte Mann colloca Hathaway e Lien sdraiati su un letto che mostra dietro di sé il cartellone di un orologio gigante appeso sulla strada. E allora, come il Jericho Mile percorso dal detenuto Larry Murphy a tempo di record, il cinema di Mann torna a narrare sé stesso, a recuperare la lezione storica che ne attraversa tutto il codice: Time is Luck, la stessa frase che da Manhunter arriva fino a Miami Vice e che qui non serve citare perché diventa l’ossatura di base di ogni inquadratura. Ogni sguardo sospeso e lasciato sopravvivere più a lungo del solito (gli attimi strappati da Mann alla prassi dello spettacolo hollywoodiano sono ormai una leggenda) rivela la duplice consapevolezza della caducità del vivere e dell’importanza dell’amore come motore primo che permette di concretizzare il desiderio di fuga.
Dialettico dicevamo perché Blackhat è avanguardia digitale e finestra su un futuro forse impossibile del cinema, ma anche racconto straziante di incredibile umanità sulla dissociazione dell’era informatica e la necessità di tornare prima alla “bassa tecnologia” e poi alla carne e sangue dello scontro fisico per conquistare la propria libertà, la sparizione digitale del corpo che dietro di sé non lascia ricevute e si perde nella messa a fuoco.
Qui troviamo ciò che rende Blackhat un unicum nella carriera cinematografica di Mann, un vero punto di arrivo e chiusura di una vita. Da sempre i personaggi del suo cinema hanno tentato la fuga, sempre hanno cercato di evadere da loro stessi, affetti da una scissione schizoide nata dalla consapevolezza di essere in trappola, legati ai dettami del genere i cui vincoli diventano metafora dei limiti di una condizione esistenziale (Neil McCauley che non riesce e non può rinunciare alla vendetta, i suoi sguardi lanciati al cielo mentre è al volante). Ma dopo anni di coppie che si danno l’addio con sguardi di lancinante sofferenza, per la prima volta Mann ci regala una fuga completa. Per la prima volta, forse proprio grazie al ritorno iniziatico all’analogico del corpo, i nostri eroi evadono per davvero. Pagano un prezzo altissimo è vero ma scappano, guadagnando l’invisibilità nella quale ritrovare sé stessi nel legame a due. Per la prima volta oggi si vive, si ama e si fugge nel cinema più bello del mondo.