Non poteva scegliere film più difficile e coraggioso per il suo esordio alla regia, Valeria Golino. Un’opera prima che racconta il suicidio assistito (e non l’eutanasia, a onor di cronaca) con l’urgenza pressante di affrontare un tema che in Italia è tabù istituzionale molto più che culturale, addentrandosi così in dubbi di varia natura e di enorme portata. Per nulla semplice, per nulla scontato. Un’operazione che nonostante le difficoltà produttive e il peso intellettuale non indifferente, va detto, è riuscita alla grande. Regalandoci un film sorprendente, cullato su dei contrasti radicali, complesso e sfaccettato senza ricorrere ad alcun tipo di sovrastruttura o arzigogolo gratuito.
Anzi, Miele è un film quasi paradossalmente semplice, che non ha bisogno di ingarbugliare le carte in tavola; per volontà della sua stessa regista rifiuta il sovrappiù, il ghirigoro eccessivo. Non per questo, però, si tratta di un film non formale o non studiato dal punto di vista visivo. Tutt’altro. Il film della Golino ha una precisa e quanto mai insperata visione architettonica dell’immagine ed è capace di un dosato e geometrico equilibrio delle inquadrature; un’armonia totale che nel suo rifiuto del sovraccarico estetizzante lambisce però ugualmente il rischio di sembrare artificiale: le simmetrie interne alle immagini possono insinuare il sospetto di un’algida perfettibilità, vogliosa di estraniarsi e andare sul sicuro, rintanandosi nella gabbia dorata di una fotografia uggiosa e inscurita, mai del tutto spenta perché sempre sospinta da un bagliore di luce ma comunque fioca e pesta, con gradazioni cromatiche votate al grigio-nero. Una sensazione cui contribuisce una messa in scena supportata da una precisa scelta musicale che potrebbe acuire il senso di sinteticità: brani straniati, sussurrati e dalla componente elettronica non indifferente come Found Out di Caribou e Skip divided di Thom Yorke, anche se contrappuntati da una Io sono il vento (cover di Marino Marini da Mina, una rarità), non ridimensionano certo la percezione di una sorta di liquame galleggiante, fatto di immagini livide impastate di suoni opposti. Il manierismo, in altre parole, potrebbe sembrare lì. In agguato.
E invece no. Ogni componente particolare del film, infatti, acquisisce in rapporto al tutto una compostezza equilibrata e necessaria. Quel che interessa e che rimane del film della Golino è, in fondo, lo sguardo: pietoso ma anche fiero e tagliente, proprio come gli occhi di Irene, ragazza che aiuta i malati terminali a passare a miglior vita nella maniera quanto più agevole e indolore possibile. Una giovane donna dal capello corto e ferino e con addosso una rabbia saettante tenuta a bada sotto la chirurgica precisione di operazioni mediche millimetriche. Furore che, in opposizione al suo lavoro (Miele è solo il suo nome di servizio) si traduce in una vitalità abissale, perseguita fino allo sfinimento e per contrasto: Irene nuota, va in bicicletta stordendosi della sua amata musica sofferta, fa l’amore spesso, morde la vita. Una molla esistenziale non indifferente salterà però dentro di lei non appena un settantenne, l’ingegner Grimaldi, la contatta per morire pur non essendo un malato terminale. La assalgono i dubbi, i nervi le esplodono in mille pezzi mentre con l’anziano si sviluppa pian piano un legame ambiguo e stratificato, in cui il personaggio del grande Carlo Cecchi finisce col fare da padre a Miele, quel padre che le è sempre mancato: le poggia una mano sulla spalla, le asciuga i capelli, presenza estranea eppure familiare. E’ una liturgia taciuta di estrema vicinanza, un rapporto affettivo sui generis. Lui debilita le sue certezze, non è il classico paziente che farmaco, canzone scelta per il momento clou e via. E’ diverso: la sua è quasi una reazione dovuta allo scollamento da un mondo sempre più volgare e insensibile alla bellezza, una bellezza relegata sullo sfondo intirizzito di un mare e una spiaggia che sembrano sempre “troppo belli” e dunque difficilmente sopportabili, ormai. Noia contro imbecillità odierna, bella lotta.
Evitando scorciatoie e semplificazioni ideologiche, la Golino, forte di un certo sguardo all’altezza della sezione in cui gareggerà a Cannes, realizza un film che rifugge a goffe e volgari sovraesposizioni di morte, laico e libero nonostante le sue autoimposte e in definitiva molto stimolanti costrizioni formali. Non si vede mai il decesso di nessuno sullo schermo, i modi per denudare l’autenticità sono ben altri: tallonare in un tango sensuale e ravvicinato la propria protagonista, donare al suo sguardo un dolente e tridimensionale filtro etico, riaffermare con grazia e intelligenza la sacrale gravità di una qualsiasi morte, un momento che a prescindere dal credo di ognuno è probabilmente la fase della vita umana più direttamente connessa con l’esperienza del divino, a dispetto dalla forma nella quale (non) la si pensi. Con la colloquialità ombrosa e schiva ma mai supponente del titolo di lavorazione (il più bello ma forse meno facilmente motivabile e più controverso Vi perdono), Miele scuote le nostre certezze e insinua la verità senza forzature rognose ma con melliflua dolcezza: è lo sguardo in camera della protagonista, durante una delle scene di morte assistita più emotivamente disturbanti del film con madre e figlio protagonisti, a glissare dalla macabra ineluttabilità del momento manco fossimo dentro un Truffaut. Una soluzione orientata ad andare a cercare anzitutto il turbamento dello spettatore e non la pornografia del dolore presente sulla scena. Ancora una volta senza sguazzare nell’evidenziazione del malessere terminale ma volgendosi piuttosto al ribollente abisso di interrogativi squarcianti che ognuno di noi cela al suo interno. In tal senso, Miele è un’opera (già) matura, superiore, che forza le catene del suo stesso formalismo presunto e allarga le sbarre delle prigione coercitiva dell’estetica a ogni costo. Arrivando, nel bellissimo finale ma anche molto prima, a spiccare davvero il volo.