Mommy
Mommy è un'opera tremendamente discontinua, in cui si sente tutto il peso di un approccio formalista che schiaccia la materia filmica e uccide i suoi personaggi sul nascere
Bluff o enfant prodige (ma il prodigio sarebbe tecnico o anagrafico?). Non se ne esce: quando si tratta di Xavier Dolan la critica sembra incapace di andare oltre questi due poli. Un vizio che ha contaminato quasi tutti, come un virus. Non esistono mezzi termini, o capolavoro o merda, come se il cinema si potesse ridurre ad uno scontro tra bande, ad una sorta di gioco della torre dove il destino di un cineasta è segnato sin dal primo film. O Vita o morte. Forse il cinema di Dolan è servito anche a questo, a smascherare (definitivamente?) il vuoto critico di questi tristi anni, in cui il testo sembra sempre più un fatto secondario e l’esperienza della visione l’ennesima prova ultima per corroborare il proprio punto di vista. E questo vale tanto per i detrattori quanto per gli estimatori di Dolan. Prendiamo il suo ultimo film, Mommy. Un’opera incensata da larghe fette di pubblico e critica, eppure tremendamente discontinua, in cui si sente tutto il peso di un approccio formalista che schiaccia la materia filmica e uccide i suoi personaggi sul nascere, impedendogli di vivere al di fuori di un percorso rigidissimo. Violenza, affetto e ancora violenza. Un abbraccio che possa restituire gli anni perduti, una carezza per asciugare le lacrime. E poi gli scontri insostenibili, le urla, gli schiaffi, le corse a perdifiato verso il nulla. Un movimento fatto di continui passi avanti e indietro, mai laterali o tangenziali. In una sorta di balletto non molto diverso da quello che cadenzava l’incubo vagamente kubrickiano nella fattoria. Ma con una coreografia dei corpi paradossalmente molto più povera, persino nella sua esibita instabilità. Ed è questo forse a non tornare in Mommy: la meccanicità delle situazioni e dei comportamenti sempre maledettamente uguali. Segno di una sconfitta inevitabile, forse. Ma anche di una povertà di scrittura che toglie il respiro, soffoca i personaggi fino a condurli in un vicolo cieco. Quella che esprimono i personaggi sarà pure fame di vita, ma di una vita fasulla, nostalgica e vintage, insomma puramente cinematografica. Una vita che esiste solo nella mente del suo autore. Una vita imperfetta per un film perfetto, in cui ci si ribella salvo poi tornare sempre al punto di partenza. Quel che conta sembra essere piuttosto il gesto scenico, l’artificio, alla ricerca dell’effetto più travolgente, della scena madre più efficace. E di scene madri nel cinema di Dolan ce ne sono in abbondanza. Il set allora più che teatro di uno scontro, sembra un palcoscenico in cui ci si esibisce sfrontatamente, persino nel proprio dolore, come in un video di Mtv. Un ambiente personale e impermeabile al mondo esterno dunque, non molto diverso da quello di Wes Anderson, altro cineasta ossessionato dal controllo. La differenza la fa lo stile, le figure retoriche ricorrenti: alle carrellate e alle simmetrie vengono sostituite le esplosioni musicali, i movimenti nervosi della mdp, gli sguardi in macchina, la cura minuziosa del decòr e dei costumi, ma la sostanza non cambia. La ribellione resta soltanto un’ipotesi, un miraggio da rincorrere con tutti i mezzi possibili. In trappola quindi, i personaggi di Dolan, proprio come quelli di Wes Anderson, si trovano spesso a misurarsi con il desiderio di fuga, di evasione da un mondo che non amano, che li reprime, li controlla, li minaccia. Ecco allora la sequenza in skateboard dove si urla a squarcia gola “Libertà, libertà”, mentre con le mani si apre un varco nell’inquadratura trasformando il formato dell’immagine. Un formato, quello del 1:1 (in aperta contraddizione con il mondo nostalgico messo in scena) scelto appositamente dal regista, magari proprio per permettere al personaggio di cercare di sfuggire al suo abbraccio mortale. Ma ovviamente il tentativo è destinato a fallire. Un’altra corsa rilancerà il futuro. Fino al prossimo conflitto edipico.
Detto questo non si possono negare le qualità di Dolan. Basterebbe il suo terzo film, lo straziante Laurence Anyways a certificarle. Il punto semmai è capire dove finisca il talento e inizi l’abilità. Dove finisca la generosità e inizi il narcisismo. La sua passione smodata per i ralenti e per i giochi cromatici rivelano un innegabile godimento nel fare cinema (per citare Nazzaro), probabilmente dettato dall’età, e dunque da una sana incoscienza e sfrontatezza che è il prodotto dell’epoca che lo ha visto crescere. Un’epoca in cui si sono vissuti gli ultimi bagliori cinematografici stampati su pellicola, tra un video di Britney Spears e uno di Dido. Dolan pensa al cinema in questi termini. Forse sarebbe il caso di farsene una ragione e di provare a comprendere, al di là del giudizio critico sulla singola opera, quanto il suo stile racconti non solo un percorso personale lontano dai consueti sentieri cinefili, ma anche e soprattutto una generazione.