N-Capace
L'originale esordio dietro la macchina da presa dell'autrice teatrale romana, Elenora Danco, tra surrealismo scenico e eredità pirandelliana
Per il suo esordio dietro la macchina da presa l’autrice e interprete teatrale romana, Eleonora Danco, sceglie di affrontare di petto e senza mezzi termini la complessità esistenziale delle relazioni, quelle intime familiari e quelle sociali, nonché l’individualità stessa che si cala e si dimena all’interno della relazionalità e delle sovra-strutture che la dominano. Sentinella al varco dei confini di passaggio delle età, che alterano le regole del gioco delle parti (infanzia perduta, adolescenza sospesa, maturità incompresa, vecchiaia indifesa) la Danco si affaccia sull’abisso del rimosso e del perturbante, per scandagliare tanto le iN-capacità di sviluppo e rielaborazione della realtà e del sé, quanto le capacità – N, ancora indeterminate, sconosciute, quelle risorse potenziali soffocate dalle convenzioni, messe a tacere dalle maschere autoindotte o eterodirette che siano. Bussa alla porta di ciascuno dei volti e delle voci che compongono la sua galleria di persone – personaggi alla disperata ricerca dei bagliori d’innocenza e autenticità mai sopiti in ognuno, se stessa compresa. La se stessa personaggio, l’anima in pena in un limbo vizioso, rappresenta il capitolo chiave, il cuore nevralgico e centrifugo, da cui hanno origine i meta-dialoghi che frammentano, scompongono l’opera.
È l’autrice stessa a rifrangersi come un prisma seguendo di volta in volta le rifrazioni che emana in una logica di affinità e affiliazione di sentimenti e ragioni. Perché il moto è nel movente, che se da una lato è di principio tracciare il profilo di una se stessa affrancata dai rimpianti, reattiva al dolore, dall’altro, sotto il peso di una dimensione sfocata e sfuggente, è anche voler solo cercare scampo e conforto: quale smarrimento vivono gli altri intorno a sé, quali amarezze custodiscono coscientemente e inconsapevolmente, quali debolezze, illusioni, alibi coltivano in segreto, pur negandosi all’evidenza? La direzione registica fuori campo interroga come in un casting la varietà e variabilità umana sull’esistenza di Dio e i dogmi, sul connubio di amore e sesso, amore senza sesso, scuola e lavoro, ataviche consuetudini, che camuffate da esigenza e costrizione hanno nel passato perpetrato violenza e sopruso, ed oggi continuano a dilagare nel benessere disarmante di non doversi domandare o recriminare nulla. Perché se gli anziani non hanno nulla da perdere nell’assecondare la richiesta di una fittizia regressione ai tempi ormai disillusi, i giovanissimi appaiono totalmente dissociati da qualsivoglia timore di sconfitta e privazione.
Certo basta non riporre nel futuro alcuna pretesa o desiderio che non possa essere materialisticamente soddisfatto qui e ora, e pertanto possa già costituire la parabola piatta di una vita intera (l’investimento scolastico e culturale è soppiantato dalla mercificazione privata dei titoli di studio; tra idraulico e pizzaiolo, a parità di stipendio il primo è il culmine di non dover lavorare anche di domenica; le fiction sulle mitologie di mafia come surrogato emozionale tra una cotta e l’altra).
Grottesca, dissacrante, scorretta, nella sua messa in scena on the road tra Roma e la natia Terracina, la regista riadatta i dispositivi programmatici di un teatro epico e straniante, che racconta senza inscenare, bensì disloca nelle ambientazioni essenziali, stilizzazioni di valori e sentimenti attraverso oggetti, paesaggi, corpi e pose in netto contrasto col quotidiano, strategiche parodie catalizzanti, affinché col tormento di certe storie si possa giungere persino a convivere. E allora il letto ai bordi della ferrovia, così come le performances attoriali corali sui binari del treno, restituiscono il senso dell’attesa infinita su una tratta interrotta o al contrario di una spensierata involuzione suicida, che attende solo di venir spazzata via.
Il surrealismo dei dialoghi e dei quadri è un quietivo dominante, che smorza la tensione senza abdicare alla profondità critica della rappresentazione.
Tra le ispirazioni non dichiarate dell’autrice, appare quasi impossibile non scorgere, e lasciarsi poi totalmente persuadere, dall’intramontabile teorizzazione poetica pirandelliana dell’umorismo, sentimento del contrario, ed ancor più dalle congetture filosofiche declamate nel Fu mattia Pascal, nel passo intitolato Uno strappo nel cielo di carta. La sofferenza schiacciata dal riso beffardo e lo squarcio delle sicurezze più banali, come il tipico ammonimento materno di non bagnarsi a mare dopo aver mangiato, possono scatenare terremoti dell’anima irrimediabili. N-capace si apre e torna ridondante sull’evocazione della figura materna, la madre vagheggiata oniricamente dalla stessa Elenora Danco, la madre nella memoria devota di suo padre e delle donne anziane, la madre che ha comunque serbato la cena al figlio, che rincasa tardi dopo essersi abbuffato al McDonald. È nella perdita traumatica di questa figura astratta, mai specificamente inquadrata, che esplode la ribellione autoriale ed esistenziale che sottende in definitiva l’indagine antropologica del film.
La madre come dimensione e misura del mondo interiore, come l\'inviolabile cielo di carta nel teatrino di marionette, l\' idealizzazione di ogni compromesso con la vita, che non troverà mai altro peso di compensazione; non potranno il legame filiale paterno, né quello coniugale, né alcun piacere.
N-capace è la N-versione del teatro nel teatro della vita reale e della condanna moderna all’incomunicabilità della verità del dramma, qualsiasi sia la genialità dell’impianto narrativo messo in atto.
Come non restare affascinati e disarmati al contempo dall’escamotage di coprirsi il volto con le foto della giovinezza e dell’infanzia, per provare anche solo per un istante l’ebrezza di aver potuto cristallizzare il tempo felice! Eppure la sensazione del tempo che scava rughe nell’anima, non può non riaffiorare nel dialogo tra gli interpreti dinanzi l’obiettivo.
Elenora Danco riesce in questo a battere territori ancora poco esplorati sul grande schermo, riuscendo prepotentemente a bucarlo.