Necropolis - La città dei morti
Il film di Dowdle è l'ennesimo esempio di horror che sacrifica ogni potenza cinematografica sull’altare della velocità e della confusione
Considerato come non si possa più giustificare il ricorso allo stile in prima persona come manovra commerciale, la costante proliferazione di found footage, mockumentary e altri generici pov movies nel cinema horror americano desta ormai sospetti poco rassicuranti. Più che una generica crisi creativa (voce vaga e facilona sotto cui inserire aspetti troppo diversi fra loro), questa ostinazione denota piuttosto una crescente sfiducia nel racconto e nell’immagine cinematografica, un’insufficienza che si manifesta sempre più nel tentativo di aumentare il legame referenziale del film con la realtà.
La tecnica dei pov movies del resto mira a questo: attraverso un processo apparentemente contradditorio, la messa in campo dei dispositivi di registrazione dovrebbe aumentare il legame con il reale proprio attraverso lo svelamento dell’atto di ripresa. Un cinema che nega sé stesso per aumentare il suo senso di immediatezza e il suo impatto. Peccato però che da tali premesse discenda un numero crescente di film persi totalmente nel meccanismo, talmente impegnati nel reinventare o anche solo ricalcare il modello da essersi persi per strada il potere dell’immagine cinematografica in sé, alla quale non occorre per forza un aggancio con la realtà (comunque sempre supposta) per inquietare e spaventare. Il risultato è un’opera tipo questo Necropolis – La città dei morti, che spreca i suoi meriti confondendo il cinema con il mal di mare.
Che poi il regista John Erick Dowdle un buon mockumentary lo ha anche già fatto (The Poughkeepsie Tapes, ne parleremo a breve sulle nostre pagine), ma lì la resa televisiva (il film finge di essere uno speciale tv su di un serial killer) era funzionale al clima di tensione e soprattutto alla paradossale banalità quotidiana della vicenda. In Necropolis (traduzione dell’evocativo titolo originale As Above, So Below) la scelta è evidentemente volta ad aumentare il senso di claustrofobia e immedesimazione, ma il risultato cercato funziona soltanto in alcuni momenti, per la maggior parte dominano confusione e traballamenti superflui e davvero poco digeribili a lungo andare. Ed è un peccato, perché il film di Dowdle ha sicuramente delle frecce al suo arco, a partire dall’idea semplice ma funzionale di rappresentare un viaggio all’inferno nei meandri delle catacombe di Parigi, oscuri cunicoli carichi di angoscia e di una forza spettrale capace di materializzare gli incubi e il rimosso degli incauti visitatori. Un’ambientazione così affascinante e l’occhio giusto per ritrarla permettono a Necropolis di passare oltre il bislacco e sbrigativo punto di partenza (la ricerca della pietra filosofale), per non parlare dei personaggi bidimensionali e privi di personalità. Nel corso del film sono diversi i momenti altamente suggestivi, come non manca un generale senso di minaccia che pervade e cresce nelle varie inquadrature, spesso intrecciato con la rappresentazione di paure ataviche e ancestrali. Il problema però è che invece di prendersi i suoi tempi, di lavorare sull’immagine, Dowdle sacrifica ogni potenza cinematografica sull’altare della velocità e della confusione, perdendo così l’occasione di realizzare, forse, un nuovo piccolo The Descent.