Nomadica 2015/ Calle de la Pietà
Tra la Pietà di Tiziano e l’ipotesi di una vertigine
«Oggi penso che fare un film che sia soltanto una rappresentazione del passato non abbia molto senso. E’ qualcosa di falso, di polveroso, il passato è passato e come tale ha cessato di esistere. Più che un racconto potrà essere una riflessione sull’esistenza e sulla funzione dell’arte, che non è altro in fondo che il desiderio di dominare il mondo, ma soprattutto di nominare il tempo». La voce ritornante di Mario Brenta non è un commento, potrebbe essere un leggerissimo contrappeso, o uno scivolamento, meglio ancora, qualcosa d’altro, un galleggiamento, una sospensione, una superficie. Un suono. È un incontro mancato con l’immagine, quella voce, una resa, sono parole che “dicono”, parole parlanti, solo il riflesso parziale di un racconto. Perché l’immagine è dentro e fuori il tempo, insieme, è una scissione, una catastrofe (mai) avvenuta, un luogo insicuro, qualcosa che scompare nella dialettica tra un’ecologia dello sguardo e la sua impossibilità, in uno schianto silenzioso, definitivo, immaginario.
Calle de la Pietà di Brenta e Karine de Villers (incontro cui seguiranno altri: Agnus Dei, del 2012, Corpo a Corpo del 2014, Black Light del 2015) allora, non può che essere, profondamente, che questo senso, una progressione necessariamente sbilenca, fluttuante, nella ricerca di un qualcosa che sia un oltre, nella ricerca di un “miracolo”, di un segreto, di una vita, l’ipotesi di una vertigine. È un canovaccio-flusso di immagini, di una loro scrittura, o forse riscrittura, una sovrapposizione dolente, fallimentare, all’assenza.
Venezia, oggi, dentro ci sono le ultime ore di Tiziano nell’agosto 1576 da un mattino a quello successivo, non è un cortocircuito ma un’effrazione lievissima, reale, fantastica. Una bottega, mani al lavoro, le dita al posto dei pennelli, gli occhi votati a cecità, l’ultimo quadro, la Pietà, che rimarrà incompiuto, ex voto contro la peste che stava inghiottendo la città. Una donna, perché «in questa storia di morte – è la voce di Brenta, ancora – c’era però bisogno di qualcosa di vivo. Tiziano sta per morire ma accanto a lui c’è ancora la vita. E questa vita è rappresentata da una donna, un bel corpo di donna, quanto di più attraente si possa desiderare. In fondo la pittura è un’arte concreta, carnale. E questa donna fa parte della concretezza e della carnalità del mondo. È nel tempo, fa avanzare il tempo ma non lo può fermare. Perché è… il tempo».
La vita è una donna, ma è anche un fantasma, è nelle tracce, segni, di un luogo fantasma, dove l’essere umano quasi non si vede, non esiste, è un dettaglio, parziale, fugace figura, tra cani, gabbiani, pesci... Calle de la Pietà è un sentimento, dunque, un sentire smarrito in una memoria sfiancata, provata, dimenticata, immobile nella pietra o scritta su una parete sull’isola di Lazzaretto Nuovo, ricovero di appestati, immagine fantasmatica, ancora, un’ immagine evanescente, una soglia. È qualcosa che chiede allo sguardo dello spettatore, il film di Brenta e de Villers. Non chiede partecipazione, vicinanza, ma uno spazio, un momento, una stasi, opera che vive della sue stesse impossibilità, delle tracce che insegue e che registra, disperde. Un viaggio, un approdo, una fuga, un film reale e irreale, un bagliore ipnagogico che si sostanzia e poi si ritrae, che si fa cinema e sua negazione. Che cerca disperatamente la vita, infine, sempre. È La geografia straniante e materica, acquatica, del desiderio, di un mistero.