Personal Shopper
Paura e desiderio: il mondo è tutto nello smartphone di Maureen, nuova, indimenticabile identità scissa del cinema di Olivier Assayas.
Il fantasma è immagine e apparenza, ma anche idea e pensiero.
Il fantasma, meglio ancora, è indugio.
Non può essere qui, non può essere ora: ha bisogno di tempo per manifestarsi, proprio perché è il tempo stesso a mancarlo.
In un mondo sempre connesso, ciò che si perde è il senso dell’attesa. La rete, con velocità supersoniche e circolazioni extracorporee, si fa regno privilegiato del tutto e subito. Il desiderio, mortificato da ciò che è precoce ed immediato, non ha altra chance se non quella di scomparire. Ma prima tenta un ultimo colpo grosso, un tardivo, disperato atto di resistenza: trovare un nuovo corpo, tentare di possederlo, chiamarlo a sé. In fin dei conti, Personal Shopper è la storia di una possessione.
Olivier Assayas indaga il sentimento dell’attesa al tempo dei social network e della cultura convergente. Se David Cronenberg ricorreva all’archetipo (Maps to the Stars) e Paul Schrader alla simulazione infinita (The Canyons), Assayas insegue un fantasma che si aggira per luoghi e non luoghi delle metropoli. Ma il suo è un ghost troppo lento per tempi così veloci: il vero fantasma di Personal Shopper, il presente-assente per eccellenza, è il desiderio. Continuamente ritornante, ossessivo come il mantra della propria morte, s’insinua nel corpo della protagonista, la chiama a sé. La risveglia.
Assayas, dopo Sils Maria, ritrova in Kristen Stewart il corpo cinematografico perfetto. È come se ci fosse una patina di vetro tra lei e il mondo circostante: una bellezza che non brilla tra le altre stelle, ma vive di una luce propria, diversa, lontana. Autoilluminata, autorigenerantesi: la Stewart diviene l’ombra di tutti i giorni, la spalla della star di Twilight. Questo ribaltamento, già iniziato in Sils Maria (dove era l’assistente di Juliette Binoche), viene qui portato all’estremo: una delle celebrità più glamour e famose del pianeta si svuota, si astrae, si fa fantasma tra i fantasmi. Il personaggio che interpreta, Maureen, è un’americana a Parigi che attende un segno dal fratello gemello appena deceduto. La ricerca di una nuova simbiosi è l’afflato che sembra animarla. La ragazza fa la personal shopper per star che non incontra mai: desidera un altro lavoro, un’altra vita, un’altra identità. Parigi è noiosa, Londra è noiosa, tutto scorre senza lasciare traccia o emozione. Solo il fascino del proibito può risvegliare il desiderio, solo la paura può rendere Maureen viva.
È proprio questo il punto nodale del film: in un orizzonte dominato dagli avatar, ogni giorno è buono per diventare un’altra donna. Anche se le è stato vietato, Maureen indossa gli abiti delle star, dorme e si masturba sui loro letti, riscopre la propria sessualità assopita. Il problema, in fondo, è uno solo: chi è Maureen? E’ possibile ritrovare un’identità in un mondo di simulacri?
Suo fratello, che era un medium, le ha lasciato in eredità un sesto senso. Maureen assiste infatti ad apparizioni che sembrano provenire dall’aldilà. Ed è proprio quando filma l’invisibile, nella sua accezione più classica e fantasmatica, che Assayas ricorre al genere come fosse un colore, un verosimile cinematografico, un già visto che permette di elidere qualsiasi spiegazione. Eppure, negli abissi digitali dell’immagine, le apparizioni dei fantasmi sembrano quanto di più analogico esista. Ricordano perfino le sovrimpressioni delle fotografie primonovecentesche che volevano provare l’esistenza degli spettri. Sono bagliori che generano immagini: il fantasma, come il cinema, viene dal buio. E’ una macchia di luce in movimento che nasce e germoglia dall’angolo più oscuro dell’inquadratura. Uno spettro, a un certo punto, vomita un’ectoplasma: lascia la propria scia, è misterioso proprio perché amorfo, più vero del digitale. Il ghost torna a essere quello che una volta era l’errore su pellicola, la chiazza abbacinante e sovraesposta che confondeva i più creduloni. In un film tutto proteso a raccontare lo spettro del presente, il passato rivive in un formato diverso: nessun restauro, solo un nuovo modo di vedere (nessuna sala cinematografica, il regno della visione è sempre e comunque a portata di mano).
Tutto il film di Assayas, a ripensarci, mette nuovamente in campo le origini attraverso il filtro virtuale. Sullo schermo di uno smartphone è possibile allora vedere uno sceneggiato degli anni ’70 girato appositamente dallo stesso Assayas o scoprire che la pioniera dell’arte astratta era la spiritualista Hilma Af Klint o che Victor Hugo conversava con William Shakesperare durante l’esilio sull’isola di Jersey.
Ogni informazione ci arriva mentre Maureen vaga da una parte all’altra della città: Assayas entra letteralmente dentro lo schermo dello smartphone, lo integra nel linguaggio del cinema, ne fa un dispositivo narrativo, scoprendone una nuova strategia della tensione. Progetta perfino una grammatica della suspense: quando un anonimo inizia a scriverle in chat, Maureen sospetta che si tratti del fratello morto. Per oltre venti minuti assistiamo a una serie di inquadrature statiche, eppure abissali: nient’altro se non una mano che digita lettere sul cellulare. Scrive e risponde al suo interlocutore, creando un avvincente thriller in chat. La scrittura ritorna prepotentemente sullo schermo, detta le pause e i ritmi, intelaia il tempo del racconto: l’attesa di ogni risposta porta, da sola, a un’insospettabile grammatica neo-hitchcockiana.
In questa protesi narcisistica, in questo nuova mano che tutto vede e tutto sente, Assayas, come Kiyoshi Kurosawa (di cui Kairo è preziosissimo precursore), slitta ancora: fa dello smartphone un ipotetico strumento di comunicazione ultradimensionale, un portale magico tra vivi e morti, uno stargate di tutti i giorni. Ci lascia immaginare, rimanendo nell’ambiguità che appartiene solo ai più grandi, una vera e propria escatologia virtuale. Nessuna seduta spiritica, nessun potere paranormale, nessun sesto senso: il vero medium oggi è il cellulare, anticamera dell’ignoto.
I fantasmi, in fondo, sono avatar della rete. Tutti insieme, tutti separati, nella folle, insensata corsa all’invisibilità. Non è poi la stessa paura delle limousine di Holy Motors? Le macchine si fanno sempre più piccole, il cinema perde volume. Nel film di Carax, Michel Piccoli si chiedeva cosa sarebbe successo se, tutto a un tratto, non fosse rimasto più nessuno a guardare. Se fossimo già all’interno dell’immagine, oggetti tra gli oggetti, sperduti e spauriti come novelli Robinson Crusoe digitali? Un mondo che va avanti, automaticamente, spinto dalla solitudine dell’abbondanza. Ecco perché il dramma di Personal Shopper riguarda completamente l’identità scissa della protagonista. Il film è invaso da un corto-circuito perfetto in cui lo spettro da aspettare, il ghost che deve sempre venire, altri non è che la propria identità.
La ricerca di un segno, l’attestazione di una presenza, si trasforma inevitabilmente nell’indagine - e nella scoperta - di sé. Siamo ormai divenuti entità ectoplasmatiche, residui di carne invasi da pixel, cervelli-4K in cui profilerano quantità spasmodiche di informazioni. Non importa quanti chilometri, quante città, quante stazioni, quanti luoghi attraversi Maureen: non è lei a essere un fantasma tra i vivi, è la stessa scena del mondo a calare. È lo stesso set-realtà a esser divenuto un gigantesco, famelico villaggio globale. La parola è il trillo di una notifica. Lo sconosciuto della chat è l’altro che non si può – che non si deve – incontrare. Un grande, seducente set, un grande, seducente doppio: tornano alla mente i gemelli di Cronenberg e il mito di Narciso riletto da McLuhan. Proprio allora Maureen riconosce nella protesi il suo doppio, nel fratello se stessa.
“Ci sei? O sono solo io?” chiede Kristen Stewart alla fine del film.
In fondo cos’altro è Personal Shopper se non un acutissimo, avvolgente racconto di formazione?