February – L’innocenza del male
L’esordio di Osgood "Oz" Perkins individua nelle suggestioni dell’horror l’innesco per una dolente riflessione su una deriva esistenziale planetaria e irreversibile.
Il variegato universo horror è sovente abitato da film che tentano di aggredire percettivamente lo spettatore, per vellicarne le emozioni più immediate e per stimolarne le reazioni psico-fisiche che ne sostanziano la natura di essere umano. Tuttavia, capita talvolta di imbattersi in titoli che, differentemente, agiscono a un livello più recondito, apparendo magari come corpi estranei rispetto al genere: in apparenza pigri e assorti, a volte resi asettici da un’astrattezza ai limiti del metafisico, essi possiedono – nei casi più riusciti – la rara capacità di scivolare impercettibilmente sottopelle, crescendo lentamente inquadratura dopo inquadratura, visione dopo visione, e toccando quelle medesime emozioni, anche se in modo più sottile e insinuante.
February – L’innocenza del male, esordio alla regia di Osgood “Oz” Perkins (primogenito di Anthony Perkins), si colloca senza tentennamenti su questo secondo versante, delineando una vicenda dagli incerti contorni narrativi, priva di forzature psicologi(sti)che e caratterizzata da un’attenzione certosina ai dettagli visivi e sonori. Ne emerge una partitura in levare, costruita su ritmi lenti, talora trasognati, sull’interazione fra gli attoniti personaggi e un ambiente spoglio e invernale, su una recitazione che agisce per sottrazione e in cui l’intonazione vocale (che scandisce poche ma sempre significative parole), l’espressione facciale e la postura corporea esprimono l’efficace lavoro sotterraneo svolto dagli e sugli attori.
Il racconto procede attraverso lo sviluppo di due storie in apparenza simultanee e non collegate fra loro; un finale spiazzante ricollocherà le tessere del puzzle in un disegno radicalmente diverso, sia dal punto di vista temporale sia da quello dell’identità dei personaggi e del significato delle loro azioni.
In un collegio religioso ai confini dell’area metropolitana di New York, gli studenti si preparano al break invernale di febbraio, salvo due studentesse, la giovanissima Katherine (Kiernan Shipka) e la più matura Joan (Lucy Boynton), visto che i genitori di entrambe, per motivi diversi, risultano in preoccupante ritardo nel recupero delle figlie, che rimangono perciò bloccate nell’edificio. Altrove, una giovane donna, Joan (Emma Roberts), in fuga da un ospedale psichiatrico e diretta nella località dove è situato il collegio, viene soccorsa da una coppia di coniugi di mezza età (Lauren Holly e James Remar), che le offrono un passaggio in auto.
Se la dimensione più prettamente horror è affidata da Perkins a una soluzione di possessione “demoniaca” (delineata più esplicitamente con Katherine, in modo più strisciante e oscuro con Joan), con un approccio meno banale di quanto sia lecito supporre, visto l’abuso del tema, il vero fulcro della vicenda è costituito dalla solitudine, dal terrore dell’abbandono, dall’incombere di un mondo vuoto di umanità, in ogni senso. Del resto, la possessione potrebbe essere chiarita proprio come un sintomo delle problematiche testé esposte. Ecco allora che le due vicende parallele e in apparenza non comunicanti (quando, in realtà, parecchi indizi lasciano ipotizzare verosimilmente che l’una sia il preludio dell’altra) risultano collegate dal fil rouge della deriva esistenziale, segnata dalla fragilità soggettiva nel fronteggiare un mondo costitutivamente invernale. Figli e genitori, giovani e adulti sono i duali attorno a cui ruota l’approccio antropologico e psicologico del regista, che focalizza la propria attenzione in particolare su una gioventù costretta dalle circostanze a misurarsi con l’incombere di una prematura e opprimente maturità. Perkins, in tali fragili rapporti, marcati da mancanze, distanze, ritardi (tutto appare inesorabilmente fuori tempo nel racconto: il dialogo, l’apertura all’altro, l’abbraccio consolante della presenza, l’elaborazione della morte e del lutto), inserisce sottilmente anche una dolorosa nota autobiografica, legata al difficile rapporto col celebre padre scomparso prematuramente.
D’altro canto, il procedere lento, dilatato, quasi a-patico degli avvenimenti aiuta il crescere sotterraneo della tensione e fa emergere con crudele efficacia la dissonanza degli scoppi di violenza, di cui si rendono protagoniste Katherine e Joan, una violenza ottusa e meccanica, operata da figure svuotate di ogni barlume di umanità e tuttavia massimamente fragili, in quanto (anche) vittime. La possessione diabolica da cui entrambe (l’identità delle due ragazze costituisce il coup de théâtre di un intreccio comunque dipanato in modo ellittico e oscuro) paiono dominate è uno dei molti punti di forza nel tratteggio dei due personaggi, nonché il veicolo dell’inquietudine di cui sono latori, soprattutto a causa della loro innocenza, essendo tramiti di un Male che, più che infero, appare immanente al mondo.
Perkins cesella un suggestivo impianto audio-visuale (con l’ausilio delle musiche elaborate dal fratello Elvis), attraversato da un fitto (e sagacemente “invisibile”) reticolo di soggettive, semi-soggettive e nobosy’shots, e fondato sul contrasto – simbolico prima ancora che percettivo – fra il territorio innevato e “indifferente”, l’edificio del college letteralmente disumanizzato, perciò vuoto, cupo e silenzioso, e i personaggi, sorta di sonnambuli in cammino verso il (o in attesa del) nulla. È un cinema ai limiti dell’astrazione, non privo di ambizioni autoriali forse premature e, certamente, non adatto a tutti i palati, ma se lo si lascia sedimentare nella coscienza, potrà insediarvisi per lungo tempo.