22 July
Paul Greengrass ricostruisce gli eventi relativi alla strage di Utoya attraverso un cinema-reportage classico e umanista, che guarda alla guarigione singola e collettiva come unico argine contro la barbarie.
Come cicatrizza il corpo lacerato di un paese? Quali processi possiamo mettere in atto per chiudere le ferite e imparare a convivere con i segni del trauma? Da dove inizia l’elaborazione del lutto quando l’impatto è su scala nazionale? Con un incontro che non ci sembra affatto casuale, qui al Lido durante la 75° edizione del Festival del Cinema di Venezia troviamo due film che da parti opposte riflettono sugli stessi quesiti.
Tanto il sorprendente Vox Lux di Brady Corbet quanto questo 22 July di Paul Greengrass lavorano sul rapporto tra terrorismo e trauma, indagando gli strumenti e le strategie che abbiamo a disposizione oggi, nell’era dell’immagine del XXI secolo, per elaborare il dramma collettivo. Ma se Corbet di queste immagini, globali e digitalizzate, fa un discorso faustiano incentrato su rituali anzitutto mediali e mediati, Greengrass affronta l’elaborazione del lutto da una prospettiva lucidamente classica e umanista, dove il linguaggio solido e collaudato del reportage documentaristico – camera a mano, montaggio serrato, stretta adesione alla dimensione tattile del reale – si sposa con la più basilare delle parabole umane, un singolo percorso di riabilitazione che diventa simbolo e prodromo di una guarigione su scala nazionale.
Degli attentati compiuti dal fascista Anders Breivik nel 2011 – prima l’autobomba ad Oslo e poi l’attacco all’isola di Utoya – Greengrass scarta ogni prospettiva mediatica, concentrando l'attenzione sull’orrore collettivo prima e sul percorso individuale dopo.
Con una sensibilità e un’attenzione rare per la rappresentazione della violenza, 22 July ricrea i difficilissimi momenti dell’attentato, offrendo una mezz’ora quasi insostenibile per il suo carico emotivo. In questa prima parte lo sguardo di Greengrass resta sul piano generale, accenna la figura del suo protagonista ma soprattutto rievoca l’accaduto guardando all’insieme degli eventi. Nella seconda parte la storia del processo a Breivik si intreccia a quella del recupero di Viljar Hanssen, il giovane che viene preso come punto di riferimento per raccontare il processo di guarigione intrapreso dalla nazione tutta. In seguito a quanto accaduto infatti Viljar è costretto ad affrontare una feroce ospedalizzazione e lunghi mesi di riabilitazione, dai quali uscirà con un controllo solo parziale del proprio corpo. Ed è proprio il corpo il centro del discorso filmico voluto da Greengrass, quel corpo sfregiato e infranto e perennemente in bilico (Viljar manterrà delle schegge di pallottola nel suo cranio in una posizione di equilibrio precario) che diventa letteralmente il tessuto cicatriziale del paese, della Norvegia ma anche della coscienza europea tutta, chiamata ad una sfida storica dall’urgenza ormai incontrovertibile. Perché se 22 July sceglie la strada familiare del percorso di rinascita, del confronto con il carnefice e il superamento del trauma, lo fa partendo da una rappresentazione dell’Europa come di un terreno a rischio, una comunità ferita al cui interno crescono germi di estremismo nazionalista e nostalgico, recrudescenze apparentemente anacronistiche ma di fatto estremamente concrete, vicine, pervasive.
È a questo contesto emergente che Greengrass riconduce la sua ricostruzione, un’emergenza politica e ideologica alla quale 22 July contrappone un ritorno intimo e sentito all’umano, al tessuto familiare, alla difesa dei propri valori fondanti. Ha un che di spielberghiano questo racconto morale, echi che tornano nella sottotrama dell’avvocato di Breivik, sotto attacco perché convinto di dover offrire al proprio cliente i diritti garantiti dalla legge, o ancora nel confronto palingenetico tra il killer e il sopravvissuto, tra Breivik e Viljar. Il loro duello a distanza attraversa una buona metà del film per chiudersi infine nel confronto durante il processo, anche se forse questa tensione tra i due non si sviluppa con l’intensità che Greengrass avrebbe voluto. Il risultato è un film sbilanciato, che resta fino all’ultimo dalla parte delle vittime e dei sopravvissuti senza dare però a Breivik quello spazio che il confronto con Viljar lasciava presupporre. Data probabilmente l’urgenza della materia Greengrass evita di correre rischi eccessivi, si concentra su strumenti e percorsi ampiamente sperimentati; tuttavia in questa prevedibilità, voluta e rispettata, prende forma un discorso dal cuore solido e preciso, una risposta limpida che trova nella forza individuale e nei legami affettivi, morali, umani, l’unico antidoto possibile alla barbarie populista dettata dall'estremismo contemporaneo.