Il filo nascosto
La magnifica ossessione che sfibra la forma andersoniana in un triangolo d'amore e di fantasmi.
«L’arte era tanto grande da non apparire addirittura. Pigmalione stesso è preso dall’immagine di quel corpo e contemplandolo concepisce una passione ardente. Spesso allunga le mani verso la sua opera per accertarsi se si stratta di carne o di avorio e nemmeno dopo il contatto ammette che sia avorio. La bacia e gli sembra di essere baciato, le parla, la stringe e crede che le sue dita affondino nelle membra che tocca»
Ovidio, Le metamorfosi
Guardando Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson torna alla mente un passaggio di Follie di una lavanderia cinese, il libro-confessione di Josef Von Sternberg. Il regista, parlando di come dirigeva l’amata-odiata Marlene Dietrich, scrive: «Si tratta di rifare un essere umano». E qui antichi furori mitologici tornano alla ribalta: il mito di Pigmalione riletto con la dialettica servo-padrone che ammanta qualsiasi creazione artistica, fino all’identificazione fondativa fra genio e masochista.
Il filo nascosto, così elegante, così sontuoso e impeccabile, perverte l’estetica del più british dei film andersoniani, la contamina, innervandole gli effetti sfibranti del veleno. Nel fuoricampo di un coito interrotto, nella tensione che s’insinua sotto veste, la forma perfetta di Anderson entra progressivamente in abisso. Si fa movimento erotico proprio perché oppone alla freddezza quasi kubrickiana dell’immagine una richiesta d’aiuto impressa negli occhi degli amanti. Un amore che può celarsi solo nel segreto di uno sguardo (e quanti segreti nasconde questo film!). Il filo nascosto riemerge, inquadratura dopo inquadratura, rendendo inerme il protagonista e intelaiando il racconto di una perdita: non c’è creazione senza sottomissione, non c’è amore senza bisogno e, soprattutto, non esiste forza senza debolezza.
Woodcock si assoggetta alla propria creatura, si lascia fagocitare dalla propria immagine, si fa avvelenare per tornare a sentire come un bambino. Trova in quella donna l’unica possibilità per fuoriuscire dai vizi di forma, dal mondo codificato che si è costruito su misura. Perdere finalmente il controllo per riprenderlo e poi perderlo di nuovo: svuotarsi e quasi morire, indebolirsi e ritrovarsi, ricominciare ogni giorno dal proprio fantasma. Perché in fondo Il filo nascosto, come tutti i film di Paul Thomas Anderson, è una storia d’amore e, come tutte le storie d’amore, una storia di fantasmi. E il fantasma è quello di un mélo che si scioglie in tutto il non detto di uno sguardo.
Il cinema di Anderson, del resto, ha sempre messo in scena complessi rapporti di potere, dialoghi a due che si reincarnano nel tempo (come suggerisce l’altra vita che canta Philip Seymour Hoffman nel toccante finale di The Master). Perché gli anni cinquanta de Il filo nascosto sembrano il controcampo del film con Hoffman e Phoenix, il seguito di un triangolo: così come la relazione di The Master oscurava un terzo personaggio che era il vero detentore del potere (Amy Adams), il rapporto tra Woodcock e Alma rilancia continuamente lo spettro della madre del protagonista, il segreto celato nell’imbottitura di un abito. Nella sequenza più fantasmatica del film la donna compare come una presenza solida, statica, un corpo cinematografico che segna il controcampo immaginario – e sempre negato – di Woodcock. I suoi occhi, il suo punto di vista, la sua verità più intima. E da quel momento sembra quasi che la madre s’impossessi di Alma, ritornando come l’amante proibita, la Rebecca che vive due volte. Cos’è, d’altronde, questo filo nascosto se non il bisogno inconfessato di amore? E cos’è qui l’amore, a sua volta, se non un veleno inebriante e salvifico?
Nella solitudine del ballo di capodanno, Woodcock vaga sperduto mentre tutto il mondo è in festa. «Baciami, bambina mia, prima che inizi a sentirmi male». Lui e lei si sciolgono l’uno nell’altra, come nella più dolorosa, nella più folle, nella più radicale delle relazioni: il cinema di Anderson approda alla fusione assoluta, all’amore come fungo, alla malattia come unica ipotesi di autenticità.