Stringimi Forte
Nel suo film più passionale e cerebrale insieme, Mathieu Amalric affronta il Cinema senza parlarne, trovandovi la chiave dell'intera esperienza umana
Con Stringimi Forte (Serre Moi Fort), la dissezione del melodramma avviata negli ultimi lavori da Mathieu Amalric assume la dimensione del manifesto poetico. È ancora un cinema difficile da digerire, che si appoggia al melò solo per metterne in discussione gli assunti; da un lato seduce evocandone le grandi passioni esasperate - dall'altro invita, attraverso una messa in scena sempre più destrutturata, a considerarne l'intrinseca fallacia. Scomponendo e ricomponendo il giocattolo del sentimento, la Tragedia si subordina alla propria rappresentazione: il sogno, la reverie, e il racconto (anche cinematografico) ne sono la materia prima, ancor più che la realtà.
Stringimi Forte porta questo decostruzionismo emozionale fino ai suoi inevitabili confini meta-narrativi. È qui che l'autore affronta infine il gesto creativo in sé, nel suo film paradossalmente più "normale", distante da quell'humus truffautiano a base di scrittori, registi e teatranti che da Lo Stadio di Wimbledon in poi aveva sempre portato in scena. Non più arte o professione, la finzione diventa necessità esistenziale, struttura invisibile anche della sofferenza più pura: il lutto familiare.
Stringimi Forte è allora a suo modo ancor più estremo di quanto già lo fosse la stordente raffinatezza al neon di Barbara, il precedente meta-biopic del 2017. Lì, la messa in scena confondeva i piani, suggerendo una sostanziale coesistenza tra oggetto reale (la cantante protagonista) e sognato (la stessa cantante come immaginata dalla troupe al lavoro sulla biografia). In Serre Moi Fort la vittoria dell'atto creativo sulla realtà è espressa, al contrario, dal suo allontanarvisi: le illusioni dalla protagonista Clarisse (Vicky Krieps), che fugge di casa immaginando la vita dei familiari rimasti indietro, reclamano ora una propria esistenza materiale, indipendente da quella della sua autrice.
Su queste strade perdute del dolore, l'allucinazione o la fantasticheria formano allora un secondo film parallelo e complementare a quello "vero". Spargendo sul letto le polaroid della propria vita passata, come il regista Yves-Amalric di Barbara scombinava costantemente i post-it con le scene del suo film in lavorazione, Clarisse esplicita la propria natura demiurgica: è regista del proprio film, madre-matrice di un'altra realtà con cui pure interagisce, dando istruzioni, e guidandola a vita propria. All'oblio auto-annullante del kieslowskiano Film Blu (modello abbastanza evidente), contrappone l'esercizio attivo del re-immaginare, per mettere ordine nel delirio del dolore.
Stringimi Forte è allora il film più estremo e al contempo accessibile della filmografia recente di Amalric. La frantumazione del reale nelle sue componenti psicanalitiche (presente-sogno-ricordo) supera qui l'ambizione surrealista di sorprendere, verso una rinnovata linearità armonica; non più libero di perdersi, il frammento è ora ordinato in una partitura. Come nelle sinfonie che dettano i tempi del film, scale e accordi si ripresentano in una struttura al contempo logica e umorale, che non improvvisa, ma insiste e rielabora metodica i suoi stessi elementi (come la mente della protagonista espande, migliora, arricchisce la realtà sognata).
È allora un cinema il cui impatto emotivo non è drogato dal virtuosismo, ma vive anzi del suo continuo mettersi in gioco, restituendo il sangue all'arte stantia del melodramma. Lezioso? Forse: è un limite, o forse una caratteristica, di molti film dell'autore, piccoli bijou onirici poco interessati a sviluppare le proprie fantasiose intuizioni. Tale compito è assegnato allo spettatore, chiamato a confrontarsi con una filmografia sempre più consapevole, tesa ad espandere le possibilità espressive del cinema come poche oggi.