Green Book
Ispirandosi alle memorie del suo sceneggiatore Nick Vallelonga, Peter Farrelly confeziona un buddy movie on the road dalla morale spicciola ed edificante, tra collaudati cliché e istrionismo attoriale.
I feel good movie sono, nella maggior parte dei casi, quei film che parlano dell’importanza del cambiamento ma il cui obiettivo è al contrario consolidare le aspettative del proprio pubblico. In altre parole, i protagonisti della vicenda subiscono un’evoluzione, mentre lo spettatore no. Lui esce dalla sala esattamente con le stesse certezze con cui è entrato, nonostante e in virtù di quel caldo appagamento che si prova a visione terminata e che decreta o meno la riuscita dell’operazione. Green Book, in corsa all’Oscar come Miglior film e Miglior sceneggiatura originale, appartiene alla categoria nel modo più esemplare possibile, e nel suo caso l’operazione può dirsi senz’altro compiuta con successo. L’esordio alla regia in solitaria di Peter Farrelly (autore insieme al fratello Bobby di commedie ormai cult come Scemo e + scemo, Tutti pazzi per Mary e Io, me e Irene) è, come era evidente fin dalle premesse, una perfetta macchina arraffa Oscar che sfrutta i più oliati meccanismi delle più classiche formule hollywoodiane – a partire dall’evergreen della strana coppia di opposti che si attraggono – per consegnare un’opera che non ha alcuna intenzione di sollevare un dibattito, quanto piuttosto di scaldare le proprie platee con la forza di un messaggio conciliante veicolato ad arte.
Al centro di Green Book c’è l’amicizia tra Tony (Viggo Mortensen), un italo-americano newyorkese burino e logorroico in cerca di lavoro, e Don Shirley (Mahershala Ali), tormentato musicista nero, colto, taciturno e talmente talentuoso da essersi guadagnato in vita l’ammirazione di Igor Stravinsky. Tony, nonostante il retroterra culturale in cui è cresciuto non sia propriamente inclusivo nei confronti degli afroamericani (retroterra che viene subito dimenticato dal personaggio in modo assai poco convincente) accetta di fare da autista a Don, accompagnandolo e proteggendolo in una tournee attraverso il Sud degli Stati Uniti degli anni Sessanta, in piena epoca di segregazioni razziali, sulla scorta del The Negro Motorist Green Book, autentica guida per viaggiatori neri che, dal 1936 al 1966, segnalava i punti di ristoro in cui gli afroamericani potevano essere accolti evitando guai. Come da manuale, tra cliché e gustose gag, il rapporto tra i due decolla superando mano a mano le diffidenze iniziali – le maggiori resistenze sono da parte di Don verso Tony, a ben vedere – e i due amici imparano l’uno dall’altro verso un finale commovente con tanto di quadretto natalizio assicurato.
Farrelly, che firma la sceneggiatura insieme a Nick Vallelonga, figlio del vero Tony, mette a frutto il proprio talento comico, tenendosi ben lontano dal tono demenziale delle commedie che lo hanno reso celebre. I dialoghi e i battibecchi tra i due protagonisti conferiscono a questo buddy movie un ritmo trascinante. Mortensen e Ali, candidati entrambi all’Oscar e il secondo vincitore del Golden Globe come miglior attore non protagonista, lavorano in perfetta alchimia, con il poliglotta Mortensen che mastica – visto l’appetito bulimico del personaggio è il caso di dirlo – in modo credibile l’italiano. I cliché imboccano con collaudata puntualità la via della commozione, senza lesinare talvolta la retorica più grossolana (Don in giacca e cravatta, con la Cadillac in panne, osservato da un gruppo di attoniti coltivatori neri del Sud). A corroborare il tutto carezzando il consenso spettatoriale si aggiunge infine la rassicurante egida della “storia vera”. In Green Book tutto è talmente lineare, classico e accomodante da rendersi allo spettatore senza alcuno sforzo. Una formula pressoché impeccabile per gli amanti del genere, e il mercato ovviamente, che però, qua e là, Farrelly sa anche gestire e incanalare suggerendo, nei suoi momenti migliori e grazie soprattutto al lavoro di Mahershala Ali, la sotterranea ma persistente sofferenza di chi è costretto a fare i conti, tutti i giorni e in silenzio, con un mondo in cui si è costretti a nascondere i lividi sotto una maschera di trucco.
Per il resto, rimane quel che rimane: un film da cui non si può pretendere altro rispetto a quanto viene offerto già dal trailer. Un film che anziché dialogare con lo spettatore, lasciandolo libero di colmare le eventuali lacune o di prendere da sé coscienza del problema, fino a sollevare reali quesiti, preferisce piuttosto l’approccio catechistico, appianando le asperità e elargendo fin da subito le proprie confortanti risposte. E può anche andare bene così. Basta essere consapevoli della differenza.