EROTIC THRILLS - Triplo gioco
Il kitsch postmoderno, a tratti delirante, di Peter Medak porta alle estreme conseguenze la trasformazione della dark lady contemporanea, in un'opera che procede per nessi inconsci e strappi narrativi, a riprova di come, a fine secolo, sia ormai l'immagine, soprattutto se erot ica, l'unica regola del gioco.
[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].
Nello stormo di femme fatale che ammorbano e deliziano l’immaginario cinematografico di fine secolo, è difficile trovare un personaggio più luciferino, letale e al contempo evanescente di Mona Demarkov (Lena Olin). In una competizione di malvagità, nemmeno l’Alex Forrest (Glenn Close) di Attrazione fatale potrebbe reggere il confronto con la killer russa di Triplo gioco (Romeo is Bleeding), immaginata dal regista Peter Medak e dalla sceneggiatrice Hilary Henkin. Forrest resta infatti un personaggio drammatico, carnefice senz’altro ma vittima a sua volta con cui è possibile empatizzare, almeno prima del suo assottigliamento a simulacro orrorifico e, anzi, ciononostante. Mona Demarkov, invece, è pura pulsione di morte, godimento decerebrato, incubo erotico, gioco senza regole anziché giocattolo di cui disporre. Con lei, la dark lady contemporanea giunge a un punto di radicale estremizzazione e si dissolve sfacciatamente in essenza, sulla scia di quanto già espresso due anni prima dalle torbide astrazioni di Paul Verhoeven in Basic Instinct.
Il kitsch postmoderno di Romeo is Bleeding prosegue la ridefinizione di questo topos femminile iniziata con gli anni ottanta e lo fa in modo singolare. Mona Demarkov è infatti una figura peculiare nel novero delle “vedove nere” che non si limita alla contaminazione tra generi e modelli ma perverte, in parte, quelli stessi codici rappresentativi. La novità è evidente a cominciare dal modo in cui il film lavora sull’ingresso in scena della femme fatale, uno dei momenti più delicati e codificati del genere, a partire almeno dall’apparizione di Phyllis Dietrichson sulle scale di casa sua ne La fiamma del peccato, – archetipo ripreso dallo stesso Verhoeven. Da Gilda a Body of Evidence, da Le catene della colpa a Attrazione fatale, alla femme fatale è riservata un’entrata in scena che ne ammanta il fascino misterioso e l’aura altera, configurandola subito come oggetto dello sguardo e dunque del desiderio maschile. La troviamo spesso in posizione dominante rispetto all’uomo (La fiamma del peccato) e, soprattutto, in contatto visivo con quest’ultimo. L’incedere è lento, quando non manifestamente lascivo. Tendenzialmente non agisce fisicamente, esercitando semmai la propria influenza con lo sguardo. Fragilità e istinto ferino possono coesistere pericolosamente. Mona Demarkov appare invece per la prima volta in uno stacco che la vede trascinata via a forza da due agenti di polizia, scalpitante e urlante, prima ancora di incontrare l’agente Jack Grimaldi (Gary Oldman). Non ha l’eleganza di Catherine Tramell né la delicatezza di Rebecca Carlson. Ad anticiparla, una scia di sangue degli uomini che ha brutalmente ucciso in una sparatoria. La dark lady di Medak è fin da subito una chiara manifestazione pulsionale, irrefrenabile istinto violento che elude qualsiasi mistero. Un’immagine impenetrabile al gioco intellettuale che non va più contemplata ma semmai vissuta e goduta.
Non c’è dunque da stupirsi se proprio un regista come Medak, incline ad atmosfere oniriche e deliranti, abbia fatto di Mona il punto focale di un film che procede per strappi, lacune del tessuto logico-narrativo e svolte impreviste senza soluzione di continuità, incalzando spesso più per associazioni inconsce che per progressioni logiche dei nessi di causa ed effetto. Un film in cui, appunto, non resta altro che agire (e godere) come unica risposta a una realtà di fine millennio a cui è sempre più difficile trovare un centro e un orizzonte, nella saturazione degli stimoli sensoriali di un panorama mediale sempre più indisciplinato. Non sarà allora un caso che, accanto al noir e al thriller, Medak attinga ampiamente per la sua figura femminile soprattutto dall’action, genere che, tra l’altro, dagli anni ottanta comincia a ritagliare nuove prospettive per i ruoli femminili, mentre protesi e mutilazioni (la Demarkov si taglia un braccio sostituendolo con un arto finto) sposano quella ridefinizione del corpo erotico esplorata in quegli anni da registi come Lynch e Cronenberg.
Dunque, se come sostiene Bocchi «L’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione», quale esempio migliore per riconfermare questa tesi di un film come Romeo is Bleeding, il cui impianto narrativo non solo cede terreno all’evidenza dell’immagine ma ne fa il suo autentico motore?