Negli ultimi decenni, complice la graduale ma inarrestabile frantumazione del nucleo familiare, siamo diventati tolleranti, per non dire cinici, nel giudicare l’esperienza del divorzio in relazione ai figli, dimenticando come solo pochi anni fa avere genitori divisi costituisse non solo uno stigma sociale ma, per quei bambini che diventavano monete di scambio o oggetti del contendere, la frattura di un’antica sicurezza ormai perduta per sempre. In Quel che sapeva Maisie, adattamento ai giorni d’oggi dall’omonimo romanzo di Henry James, è proprio lo sguardo di una bambina, Maisie, che tutto vede senza parlare, a descrivere gli avvenimenti seguenti la rottura fra la madre, un’emotiva Julianne Moore persa fra la figlia e gli eccessi di una vita da rockstar che mal si adegua alle sue responsabilità familiari, e un padre affettuoso ma poco presente. Per rifarsi una vita di facciata, o cercare inconsciamente qualcuno che si prenda cura della piccola, entrambi i genitori rapidamente si risposano con due compagni più giovani, per poi abbandonarli a se stessi insieme a Maisie e tornare a dedicarsi al lavoro, mentre la bambina, sballottata fra case nuove e camere diversamente addobbate, cerca di trovare un equilibrio precario affezionandosi ai rispettivi patrigno e matrigna.
Lo sguardo dei registi, Scott McGehee e David Siegel, parte dal presupposto che pur nel dolore un bambino non possa avere piena coscienza della tragedia come un adulto, e pertanto malgrado i contenuti Quel che sapeva Maisie si profila come una commedia, o meglio, un film drammatico ripetutamente alleggerito dal candore della protagonista che trova sollievo dalla solitudine nelle piccole gioie che il giorno può offrirle in forma di un gioco, una passeggiata lieve, una stretta di mano. Ma per quanto possa sembrar più facile dimenticare da piccoli, è invece vero il contrario, ovvero che i bambini non solo assorbono tutto, ma il peso che si portano dietro in età adulta è più intollerabile dei contrasti vissuti da grandi: così in realtà, quel che succede a Maisie è una vera e propria catastrofe di cui lei è ancora ignara – a differenza di noi spettatori –, una fine del mondo con i conseguenti primi, incerti passi sulla macerie che ne restano, fatte dei frammenti di quelle figure una volta granitiche che sono il padre e la madre. Il film soffre qui di una costruzione eccessivamente stereotipata degli opposti, costruita su questi genitori così egoisti, fragili e distratti, per quanti affettuosi, e i loro sostituti generosi, dediti, e forse più disponibili solo perché ancora giovani, liberi, e non piegati dai desideri contraddittori offerti dall’esistenza. Troppo facile raccontare un divorzio come la somma dell’incapacità dei partner di capirsi, ascoltarsi, avere pazienza, e troppo facile pensare che per essere genitori e occuparsi dei figli basti davvero poco. Ma se le figure adulte che circondano la protagonista sono troppo vaghe per meritare compassione o il disprezzo, è nella caratterizzazione della piccola Maisie, tanto dolce e mite da ispirare commozione, che Quel che sapeva Maisie trova la sua forza. Fa quasi rabbia che la bambina non possa parlare, anche se forse le sue parole sarebbero inadatte a descrivere ciò che vive, eppure bastano gli occhi a raccontare lo smarrimento che è forse la chiave per penetrare nel suo dramma. Maisie non è ancora grande abbastanza per essere arrabbiata, per perdonare, né per rinfacciare o chiedere spiegazioni, tutto ciò che riesce fare è avere paura, delle persone sconosciute che la vengono a prendere a scuola e dei genitori che esibiscono un’inedita maschera di rancore e violenza in sua presenza, e come risposta cerca di aggrapparsi ai piccoli brandelli di serenità che riesce a strappare nella sua caduta nell’abisso, il che basta per intuire una futura personalità pronta a vivere momento per momento giacché non si può contare su nulla di più solido. Di fronte a questa calcolata ferita inferta a un personaggio così innocente non si può rimanere indifferenti, malgrado tutte le pecche del racconto, e se il film fallisce nell’offrire personaggi autentici non manca però di lasciare una lanciante tristezza che sta nell’esser piccoli e tuttavia già costretti a farsi forti, quando invece la vita dovrebbe essere ancora solo gioco, risate, e il tenero calore del rifugio familiare che ogni paura sa cacciare via con un abbraccio.